Agosto 27, 2023

Sant’Antonio di Ranverso, per non citare che le gemme più note e preziose di quel diadema? Tesori insostituibili di storia, architettura e arte che stanno andando in malora o ci sono già andati.

Sant’Antonio di Ranverso, per non citare che le gemme più note e preziose di quel diadema? Tesori insostituibili di storia, architettura e arte che stanno andando in malora o ci sono già andati.

L’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso
è uno di questi luoghi. Fu fondata attorno al 1188 lungo l’antica via Francigena, forse trasferendo a valle una
precedente fondazione a Susa e su terreni donati da Umberto III di Savoia
detto “il Beato”. Le sue architetture
sono fra le più importanti del tardo
Medioevo piemontese e altrettanto
valore hanno gli affreschi: anzi, proprio dalla fi rma lasciata da Giacomo
Jaquerio ai piedi di una delicatissima
Vergine in trono con Bambino e abate
in preghiera si è sviluppato lo studio
dell’arte fi gurativa piemontese fra Tre
e Quattrocento.
Il complesso in realtà non era un’abbazia, ma una precettoria dipendente dall’abbazia di Saint-Antoine-duViennois, nel Delfi nato, e rappresentava una delle tappe di quel sistema
di luoghi di accoglienza i cui cardini
erano la Sacra di San Michele, Novalesa e San Giusto di Susa (poi divenuta
cattedrale). La croce commissa, o a
Tau (in forma di una ‘T’ maiuscola),
onnipresente a Ranverso, identifi cava
Sant’Antonio, solitamente rappresentato con il bastone a Tau e seguito da
un maiale. Il Santo era considerato il
protettore degli animali domestici e
l’inventore del sistema di curare col
grasso di maiale l’Herpes Zoster, quel
“Fuoco di Sant’Antonio” che aveva
raggiunto forme endemiche e particolarmente gravi nel Medioevo e i
cui malati venivano accomunati ai
lebbrosi: col grasso si ricoprivano le
piaghe evitando contatto con l’aria e
attenuando il dolore. Proprio con lo
scopo di assistere questi ammalati
verso la fi ne dell’XI secolo era stato
fondato in Francia, a La Motte-Saint
Didier presso Vienne, l’istituto degli
Ospedalieri di Sant’Antonio: i monaci indossavano un abito nero, segnato
sul petto da una croce in forma di “T”
in panno azzurro. Gli Antoniani furono i veri anticipatori di tutti gli ordini
Ospedalieri.
Preceduta da un ristretto sagrato, la
facciata della chiesa si presenta nelle
linee del gotico dell’ultimo trentennio
del Quattrocento ed è segnata da tre
alte ghimberghe concluse da pinnacoli e formate da ricche fasce di formelle in cotto, molte delle quali rappresentano foglie di quercia e ghiande
(nutrimento del maiale). Nel portico,
o nartece, si trovano le sculture più
interessanti di tutto il complesso, alle quali lavorarono almeno due artisti, che nei capitelli e nelle mensole
scolpirono teste di mostri con le fauci spalancate, di animali (bellissima
l’immagine del cane con una pagnotta in bocca) e delicati volti femminili.
Le mensole reggi-archi murate ai lati
della porta di ingresso della chiesa
presentano invece teste maschili, bifronti, ancora con rilevanti tracce di
antica coloritura e ornamenti di foglie
di quercia e ghiande. Quanto ai dipinti, sono pressoché scomparse le fi gure
di angeli affrescate nelle lunette inferiori delle ghimberghe, ma altri sono
ancora visibili nel portico.
Dell’antico complesso rimane soprattutto la chiesa abbaziale, mentre
dell’edifi cio dell’Ospedale solo la facciata si è conservata. Al tardo Trecento
risalirebbe il campanile gotico, ricostruito sulla base di uno più antico e
concluso da una cuspide ottagonale e
quattro pinnacoli.
La chiesa non segue un preciso principio di simmetria, e si nota una forte
deviazione dell’abside rispetto all’asse della navata centrale.
L’apparato decorativo interno ha
subito le ingiurie del tempo e innumerevoli manomissioni. Le testimonianze più importanti e meglio conservate
si trovano soprattutto
nella luminosa area
presbiteriale e nella piccola, raccolta
sacrestia. L’abside è
dominata dal maestoso polittico Natività, Santi e Storie di
Sant’Antonio Abate,
una delle opere più
belle di Defendente
Ferrari, che la dipinse fra il 1530 e il 1531
su committenza della
Città di Moncalieri come ex voto per la liberazione dalla peste.
Ben più antichi sono
gli affreschi. Già in
pieno Trecento le pareti dell’abside erano
state affrescate con testine di “Angeli reggitenda”, di grande signifi cato
simbolico. Su quel tendaggio dipinto fi guravano infatti la croce a Tau,
la campanella dei lebbrosi, le fi ammelle evocanti il dolore del Fuoco di
Sant’Antonio e le stelle a più punte
simbolo di speranza. Questo affresco
fu poi coperto da altre decorazioni,
ed è stata la parziale caduta degli affreschi successivi a farlo riscoprire.
Proprio gli affreschi successivi sono quelli di
maggior valore artistico
e storico.
Tutto cominciò con un
ritrovamento
casuale. Nel
1914, durante
restauri comm i s s i o n a t i
dall’Ordine
Mauriziano,
proprietario
del complesso
dal 1776, furono rimossi
gli stalli di un
coro ligneo
seicentesco
addossati alle
pareti dell’abside. Si scoprirono così
parti di affreschi di cui si
era persa memoria e, soprattutto, tornò alla luce
una breve epigrafe in caratteri gotici,
già allora frammentaria per una parziale abrasione, ma facilmente integrabile: (Picta) fuit ista capela p(er)
manu(m) Jacobi Jaqueri de Taurino
(“Questa cappella è stata dipinta dalla
mano di Giacomo Jaquerio di Torino”). Era la prova che si cercava da
tempo, anche se il nome di Jaquerio
era già citato in altre fonti.
Le parole “ista capela” indussero ad
attribuire a Jaquerio o alla sua scuola
tutti gli affreschi della chiesa e della
sacrestia, e a datare la sua presenza a
Ranverso attorno al 1430, quando cioè
l’artista, morto quasi ottantenne nel
1453, aveva superato i sessant’anni.
In realtà Giacomo Jaquerio vi avrebbe lavorato fra il 1396 e il 1406 e con
la committenza per affrescare, come
ha rivelato un documento scoperto
di recente, le pareti attorno all’altare
maggiore e le cappelle di San Biagio,
della Maddalena e della Vergine. Non
si parla, nel documento, degli affreschi della sacrestia o di altre parti della
chiesa, ma nulla esclude che in anni
successivi lo stesso Jaquerio o pittori
A due passi da
Torino, poco
noto persino a molti
piemontesi, c’è uno
dei più alti esempi
di architettura e
pittura medievale
del Piemonte.
Era la precettoria
di un ordine
ospedaliero
intitolato a
Sant’Antonio
Abate, che col
grasso di maiale
curava una delle
più gravi malattie
dell’epoca, quel
“Fuoco” che proprio
da lui prese il nome.
Arte e storia
onnipresente a Ranverso, identifi cava
Sant’Antonio, solitamente rappresentato con il bastone a Tau e seguito da
un maiale. Il Santo era considerato il
scolpirono teste di mostri con le fauci spalancate, di animali (bellissima
l’immagine del cane con una pagnotta in bocca) e delicati volti femminili.
fu poi coperto da altre decorazioni,
ed è stata la parziale caduta degli affreschi successivi a farlo riscoprire.
Proprio gli affreschi successivi so-
Sant’Antonio di Ranverso
21 Piemonte
mese
del suo atélier siano stati nuovamente
chiamati a Ranverso.
In realtà gli artisti al lavoro sul lato
destro dell’abside furono diversi, e
proprio su questa parete troviamo un
affresco bellissimo, di genuina vena
popolare: due villici tengono legati
per le zampe due irsuti maiali. Li seguono, oltre il profi lo della nicchia,
alcune pecore e una mucca dal manto
fulvo.
La parte superiore è invece dedicata
alle Storie della Vita di Sant’Antonio
Abate, in cui si rivela la mano di un
artista raffinato, autore di una pittura tanto elegante quanto sobria e
veloce.
A Jaquerio erano stati attribuiti in
passato anche gli affreschi della sacrestia. Il piccolo locale è interamente decorato con opere che sono tra le
più note tra quelle del tardo Quattrocento in Piemonte. A cominciare
dalla straordinaria scena della Salita
al Calvario, raffigurazione potente
di azioni e di gesti in un addensarsi
selvaggio di personaggi, stendardi,
al abarde, picche e bandiere. Con una
buona dose di rude verismo e qualche
accentuazione della cattiveria anche
somatica, deformata e truculenta, degli aguzzini attorno alla fi gura centrale di Cristo, in lunga veste bianca, che
porta la croce sulle spalle. Verismo da
sacra rappresentazione medievale la
cui concitazione sembra aver preso
la mano dell’artista perché l’affresco
rivela errori e assurdità. Ad esempio,
nella parte inferiore del dipinto delimitata dal tronco trasversale della
croce, davanti alla fi gura di Cristo e
alle sue spalle compaiono gambe, piedi e parte di abiti di almeno cinque
personaggi che non corrispondono
come si dovrebbe con la parte superiore dei corpi di altrettante persone.
Tuttavia la scena è talmente animata
e densa da non far rilevare questi sia
pur vistosi errori.
Al carattere fortemente popolaresco
della Salita al Calvario, si contrappongono gli altri affreschi della sacrestia. In particolare, l’Annunciazione
e la Preghiera di Gesù nell’Orto del
Getsemani. I due affreschi, uno di
fronte all’altro, sono raffinatissimi
esempi dell’arte di corte, sul fi lo della
poesia del gotico internazionale. Ad
altri due pittori, il primo di tradizione
tardo-gotica, il secondo di più robusta
tradizione popolare, sarebbero da attribuire le fi gure degli Evangelisti con
i loro simboli apocalittici sulle quattro vele della volta, e i Santi Pietro e
Paolo sulla parete di fronte alla Salita
al Calvario.
All’opera diretta di Jaquerio e del suo
laboratorio sono invece da assegnare
gli affreschi della cappella di San Biagio, in precario stato di conservazione, ma ancora in grado di restituire
il tocco veloce, le lucide atmosfere
tra naturalismo e racconto fi abesco,
le movenze eleganti, i personaggi
(molto bello il volto maschile nel sottarco tra la cappella e la navata centrale) conosciuti nelle opere certe del
pittore torinese. Nella stessa cappella
sarebbero invece opera di altri artisti,
e realizzate in anni diversi, le fi gure
di santi negli sguanci della fi nestra e
i Simboli evangelici nelle vele della
volta. Riferibili alla mano di Jaquerio
anche alcuni frammenti della Cappella della Maddalena (in particolare la
piccola scena frammentaria di eleganti personaggi davanti alle mura di un
castello) e di quella della Vergine, nelle fi gure di San Dionigi e di Sant’Eutropio negli sguanci della fi nestra.
Immagini: L. Cremoni
©Michelangelo Carta Editore ■
Arte e storia Fuori dai denti
È a due passi da Torino, più o
meno a metà strada fra Rivoli e
Avigliana. Eppure capita spesso di parlare con dei piemontesi, anche persone che hanno
visitato mezzo mondo e conoscono le grandi cattedrali europee come le loro tasche, che
a Sant’Antonio di Ranverso
non ci sono mai stati.
La solita esterofi lia, certo, ma
anche l’endemica inadeguatezza del Piemonte nell’esaltare e comunicare le proprie bellezze, anche ai piemontesi stessi. E se per luoghi
come Venaria, il Museo Egizio o molte dimore sabaude la questione
pare felicemente risolta, in altri casi, e clamorosi, le cose stanno diversamente, anche perché entrano in gioco elementi che non hanno
nulla a che fare con l’arte o la comunicazione del Piemonte ma sono
invece legati a questioni politico-burocratiche. Primo fra tutti il gran
pasticcio collegato alla molto ingloriosa fi ne dell’Ordine Mauriziano
e alle infi nite lungaggini, liti, limiti di competenza e oceani di incompetenza, incuria e rimbalzi di responsabilità che hanno portato un
inestimabile patrimonio artistico e culturale sull’orlo del collasso.
Quanto è grave tutto ciò? Non lo so: quanto valgono, artisticamente e
storicamente, la Palazzina di Caccia di Stupinigi e le sue pertinenze,
la Basilica Mauriziana di Torino, l’abbazia di Staffarda e Sant’Antonio di Ranverso, per non citare che le
gemme più note e preziose di quel diadema?
Tesori insostituibili di storia, architettura e arte che
stanno andando in malora o ci sono già andati.
Stupinigi è, si spera, in restauro. Era ora, anzi l’ora
era passata da un bel po’: la balconata del salone centrale era talmente pericolante che quando ci andai
per fare delle riprese fotografi che mi domandarono
quanto pesavo, perché non era sicuro che il pavimento mi reggesse, e vi posso assicurare che camminare
là sopra non è stato piacevole. Non solo per i buchi
nel pavimento, ma per la sporcizia, gli escrementi di
topi e di uccelli che lordavano gli stucchi, le cartacce
e gli involti di caramelle, merendine e bibite (ci si domanda chi le avesse lasciate lì, visto che il luogo non
era aperto al pubblico, ma di che stupirsi, visto che per fotografare la
scrivania del Prinotto dovetti prima spolverarla almeno un po’, e non
vi dico l’apprensione nel toccare un pezzo tanto prezioso e la rabbia
nel vederlo così trascurato). Il resto della Palazzina non se la passava
meglio, con parecchi soffi tti che avevano una gran voglia di schiantarsi sui Piffetti o i Bonzanigo sottostanti…
E Staffarda? Tutto bene nella parte della chiesa e del chiostro. Ma
appena ci si inoltra nell’ex parte conventuale, un dedalo affascinante di passaggi suggestivi e corridoi sui quali si affacciano le antiche
celle dei monaci, il cuore sanguina e la bile ribolle: crateri nel soffi tto, ciarpame dappertutto, mucchi di guano qua e là, uccelli morti,
escrementi di topi. E dopo tutto questo, si entra in una stanza abbandonata come tutto il resto, con dentro la solita raccolta di rottami e
in una nicchia, dietro due ante di legno, una meravigliosa Lactatio
Virginis tardo medievale, purissima e struggente in mezzo a tanto
obbrobrio…
Come sempre, Roma (o Torino) discute e Sagunto brucia.
Ma davvero è così importante stabilire chi deve fare cosa?
Forse sì, ma accidenti, sono anni e anni che va avanti questa tiritera,
e si spendono quattrini a palate per pagare consulenti, commissari e
burocrazie varie. Tutti arrivano, dicono peste e corna dei predecessori, fanno promesse e se ne vanno. E intanto i muri marciscono, gli
arredi vengono rubati e (a volte) ritrovati, i soffi tti cedono, gli stucchi
si sgretolano, piccioni e topi la fanno da padroni. Mancano i soldi per
i restauri: com’è che per fare gli stadi si trovano subito?
Se quelle meraviglie sono ancora in piedi lo si deve solo al genio di
chi li ha progettati e costruiti, ma l’imbecillità della burocrazia sa distruggere anche i muri più solidi.
Lucilla Cremoni

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