Lagazzettadelmezzogiorno la focara Poesia A Fòcara del nostro grande Poeta Calabrese Michele Pane
Lagazzettadelmezzogiorno la focara Poesia A Fòcara del nostro grande Poeta Calabrese Michele Pane
In altre parti d’Italia esistono fòcare che si svolgono in modo diverso ma, secondo me, con un medesimo filo conduttore. Il fuoco assume, in ciascuna di esse, il ruolo di purificatore; serve a spazzare via il male che si era accumulato nell’anno o nella stagione precedente, come è evidente anche nel fuoco che distrugge il fantoccio di Carnevale.
Ecco come descrive i fuochi che si accendevano nella penisola sorrentina, in un diverso periodo dell’anno, lo studioso Gaetano Amalfi nel 1890: «Nella vigilia dell’Assunta per tutte le colline della penisola di Sorrento sono in uso i focarazzi, alimentati dalla paglia della raccolta già fatta. Forse ciò deriva dal divieto imposto da Re Carlo I d’Angiò (Pridem quidem) di non bruciar le stoppie, pria di tal tempo e quindi evitare possibili incendi. Anche nella festa di S. Antonio, a’ 13 di giugno, i ragazzi con un soldo per ciascuno comprano delle fascine e fanno de’ gran focarazzi , ad ogni larghetto del paese. Tale uso ora si va smettendo ; e le fascine si sostituiscono con i lumi alla veneziana , cioè le panarelle.» [Gaetano Amalfi, Tradizioni ed usi nella Penisola Sorrentina, Palermo, Pedone Lauriel, 1890, p. 50]
Quella di cui parla Michele Pane, e che molti di noi ricordano, è però una fòcara diversa da quella delle origini, secondo la nostra ricostruzione. Ai tempi di Pane nel territorio ci sono poche fonti di approvvigionamento di materiale combustibile. Non si fanno più le cesine e le radici, insieme ai resti di ceppaie degli alberi tagliati, venivano completamente utilizzati per il fuoco della casa, come già detto. Lo stesso Michele Pane, nella poesia Tora, descrive come sia dura la lotta contro il freddo:
«Veniadi priestu la vecchiarella [Veniva presto al mattino la vecchiarella affezionata
e ne portavadi ‘na sarcinella e ci portava una fascina
ppe’ ni ‘nde fare nue ‘na vampata» per farcene noi una vampata]
Oppure, in Viernu è vicinu:
Allu cannizzu nun c’è cchiù pane, [Nel graticcio non c’è più pane,
l’utru è senz’uogliu mu n’allucimu, l’otre è senza olio per illuminare,
‘un’àmu ligna mu ne scarfàmu non abbiamo legna per riscaldarci]
E allora il rito si è trasformato in una variante che è durata fino agli anni ’60 o ’70 del Novecento, e cioé nella variante secondo cui la legna va sì cercata nei boschi o vicino ai fiumi, ma anche chiedendola ai poveri abitanti che ne avevano già poca per loro, o, in casi estremi, sottraendola con destrezza dalle riserve … mal custodite.
I giovani approfittavano di questo rito per dare prova di forza fisica, di abilità, di coraggio e per tentare la scalata all’interno del gruppo, competere per il ruolo di leader. Tutto questo era possibile perché la ricerca, la raccolta e il trasporto dei zucchi richiedeva astuzia, forza, strategia. Sì, perché dal momento che la materia prima scarseggiava – raramente si tagliava un albero – occorreva cercare sempre più lontano dal paese e anche sottrarre la preda, adocchiata magari mesi prima, ai predatori delle vicine frazioni che avevano puntato gli occhi sullo stesso oggetto.
Di questi aspetti socio-antropologici rende pienamente conto Michele Pane nella sua poesia in cui narra della preparazione della fòcara:
jungiùti sutta l’Urmu a comitive [riuniti sotto l’Olmo in gruppi
cumu s’avia dde fare se pensava come fare si pensava
ppe’ rèscere la fòcara cchiù nova per fare una fòcara che riuscisse nuova
de l’annu avanti, e dare ‘e nue ‘na prova. rispetto all’anno prima, e metterci alla prova.]
Ecco che nelle parole del poeta emergono tutti gli elementi precedentemente citati:
– la formazione dei gruppi
– progettazione e strategia
– una fòcara sempre diversa
– dare una prova della propria forza e coraggio
Continua poi:
Dòppu chi s’era tuttu cuncertatu [Dopo che tutto era stato concordato
ognunu s’ ‘a spilava citu citu ognuno si defilava in silenzio
‘mbersu dduve lu jurnu abbìlettatu verso dove di giorno avvistato
aviadi ligna; (o biellu e dduce ritu!) aveva della legna; (o bello e dolce rito!)
nun ce restava mancu ‘nu scigatu non sopravviveva nemmeno uno steccato
cà ‘e manu nostre avìanu lu ‘njurìtu poiché le nostre mani avevano la frenesia
pped’agguantare ‘e ligna chi ricùotu di agguantare la legna che raccolta
avìanu chilli gìenti, chi cchiù pùotû. aveva quella gente, quanto più aveva potuto!]
Pue, le ligna de nue tutti arrubate, [Poi, la legna da noi tutti rubata,
venìanu avanzi la gghìesa spunute veniva davanti la chiesa deposta
e ccu’ mastrìa e lestizza ‘ncatastate e con maestria e rapidità accatastata
supra li zucchi. o surtandu spandute, sopra i ceppi, o soltanto stesa,
e dòppu ccu’ linazza llà ‘mpizzàte; e dopo con residui del lino lì incendiati;
si tu l’avissi, letture mio, vidute se tu avessi, lettore mio, viste
le vampe de la fòcara ‘nu titi, le fiamme della fòcara appena un po’
averre dittu: o cari antichi riti! avresti detto: o cari antichi riti!]
Linguijandu saglìanu li vampìli [Serpeggiando salivano le fiamme
‘mbersu lu cielu e pàrc’avianu l’ale verso il cielo e sembravano aver le ali
e nue, assettàti supra li sedìli e noi, seduti sopra i sedili
d’ ‘a gghìesa, avìamu ‘n’aria patriarcale. della chiesa, avevamo un’aria patriarcale.
L’organu s’aperia: pepole-pilu… L’organo si avviava: pepole-pilu…
bella sonata ch’è lla pasturale! bella sonata che è la pastorale!
la duce pasturale de Carmelu la dolce pastorale di Carmelo
facìa volare l’arme nostre ‘n cielu! faceva volare le anime nostre in cielo!]
E pped’ ogni paìse, pp’ogni vallu [E in ogni paese, in ogni valle
‘n luntananza vidie ‘na focarella, in lontananza vedevi una fòcarella
e ad ogn’ ammasunaru sentìe ‘u gallu e ad ogni pollaio sentivi il gallo
fare: chichirichì! cchi festa bella! fare: chicchirichì! che festa bella!]
Michele Pane descrive magistralmente ogni aspetto della preparazione della fòcara. I ragazzi, di sera, si radunavano davanti alla chiesa per concordare tempi e azioni, dividendosi il territorio, per andare a prelevare legna da tutti i luoghi in cui durante il giorno erano stati avvistati. Neanche gli steccati stessi, posti a protezione degli orti, resistevano, poichè essendo fatti di legno, finivano per diventare a loro volta preda dei cercatori.
Questo tipo di legna finiva sopra e tra i ceppi più grossi (zucchi) che da soli non avrebbero mai preso fuoco. Ad aiutare l’accensione si usava poi la linazza, gli scarti della pettinatura del lino dopo la lavorazione col mangano e il cardo. E’ un materiale che fornisce una fiamma temporanea ma sufficiente a far incendiare i legni piccoli e secchi che a loro volta avrebbero acceso i zucchi, i veri garanti della lunga durata della fòcara.
Poniamo anche attenzione al verso «e nue, assettàti supra li sedìli d’ ‘a gghìesa, avìamu ‘n’aria patriarcale». I sedili sono gli scalini della chiesa, anzi è tutto il perimetro del sagrato che è rialzato rispetto al piano della piazza, dai quali i ragazzi osservavano soddisfatti la scena che si svolgeva poco distante: tutto il paese che si godeva il calore della fòcara che con tanti sforzi loro avevano realizzato. L’«aria patriarcale» è dipinta sui volti dei giovani che avevano superato la prova iniziatica, stabilita in canoni e codici misteriosi noti soltanto agli uomini più grandi, che quelle stesse cose avevano già fatto e ai quali, in ultima analisi, i giovani ambivano equipararsi. Dalla piazza antistante la chiesa di Adami si godeva – allora come ora – di una splendida vista su Soveria Mannelli e San Tommaso, con le rispettive fòcare che di notte dovevano illuminare il cielo (le più grandi erano quelle di Portapiana e di Mannelli). In lontananza si riuscivano a distinguere forse anche quelle di Castagna o Carlopoli, anche tenuto conto del buio notturno più totale.
Il trasporto di zucchi dai boschi e luoghi a volte molto lontani, avveniva con l’aiuto di un particolare carro a “trazione umana”, un rustico piano triangolare con due assi e quattro ruote in legno. L’asse anteriore, ancorato alla punta del piano con un perno in ferro, consentiva di sterzare sia se lo si tirava con una corda, sia se manovrato con i piedi dal conducente seduto sul carro. Negli anni sessanta, con la disponibilità di pezzi provenienti da automobili o camion rottamati, le ruote in legno vennero sostituite da grossi cuscinetti a sfere che sull’asfalto garantivano grande velocità, ma a quel punto il carro era già diventato una macchina per giocare piuttosto che un vero e proprio mezzo di trasporto per strade sterrate. L’esemplare di cui segue la fotografia era appartenuto a Flavio Tomaino, abitante in Tomaini e prematuramente scomparso, che collaborò appassionatamente con chi scrive nella raccolta di oggetti da destinare al Museo Civico di Decollatura Museo della Nostra Terra.
Flavio aveva dotato il carro anche di un rudimentale sistema frenante dalla struttura simile a quello del carro dei buoi, applicando una traversa in legno che, azionata dal pedale che si vede nella parte anteriore, premeva contro le ruote rallentandone il movimento. Una molla garantiva il ritorno del pedale.
Sulla competizione tra gruppi di cercatori di zucchi si raccontano episodi inverosimili. La rivalità era fortissima tra i gruppi di giovani appartenenti a frazioni confinanti: Casinovari contro Passaggiari, Cerrisari contro Vunazzari e così via. Gli Addamari non avevano contese con le altre frazioni di Decollatura per via della relativamente grande distanza tra le loro zone e perciò rivaleggiavano tra loro in quanto in realtà le fòcare di Adami erano più di una: quella di cui parla Michele Pane era la principale essendo davanti alla chiesa ma poi ce n’era una a Censo, a Pagliaia, ecc.
Fra gli episodi più incredibili che ho sentito raccontare in questi giorni ce n’è uno che portò addirittura ad un processo presso la Pretura di Soveria Mannelli. Si svolse nel Natale del 1949 (forse un anno prima o un anno dopo) quando i giovanotti di Casenove (Decollatura) avevano adocchiato un gigantesco zuccu in un boschetto privato nei pressi del bivio di Gesariello. Lo stesso avevano già fatto i giovani di Praticello anche perché ritenendo che il terreno rientrasse nella zona di loro pertinenza erano sicuri di essere loro ad accaparrarsi il grande ceppo. Senonché, per anticipare i tempi, il gruppo di Casenove una sera pensò di passare all’azione e preso di nascosto un carro da buoi appartenente all’ignaro padre di uno dei ragazzi, si recarono sul posto spingendolo a mano. Giunti sul luogo in cui si trovava l’enorme ceppo – stimato secondo il racconto fattomi intorno ai 20 quintali – lo si caricò a fatica sul carro e fu portato davanti alla chiesa di Casenove. Il carro fu rimesso al suo posto non prima di averlo riparato perchè l’enorme carico ne aveva danneggiato non so quale parte. Il giorno dopo i giovani di Praticello si accorsero dell’accaduto e avvertirono il proprietario del bosco che presentò denuncia per furto. Subito dopo si presentarono davanti alla chiesa con la presenza del maresciallo dei carabinieri per pretendere la restituzione del grande ceppo. Seguì il processo ai tre denunciati che però furono assolti, essendo stati difesi dal giovane avvocato Vitaliano Bonacci che a sua volta era solito partecipare alla ricerca dei zucchi. L’assoluzione (non sappiamo se per insufficienza di prove o per non aver commesso il fatto) poggiò sulla circostanza evidenziata dall’avvocato che non era possibile fossero loro i responsabili del furto visto l’enorme peso del legno conteso.
Un altro episodio verificatosi negli anni ’70 a Cerrisi riguarda la contesa di un grosso zuccu tra Cerrisari e Vunazzari. Entrambi i gruppi avevano puntato lo stesso zuccu nelle montagne vicine alla frazione Bonacci. Per primi però erano arrivati quelli di Cerrisi ma per le grandi dimensioni del legno non erano riusciti a trascinarlo via. Lasciati un paio di giovanotti a sorvegliarlo, il gruppo torna a Cerrisi per trovare un mezzo di trasporto e anche rinforzi. Intanto diventa sera e i Vunazzari accorrono insospettiti da quel via vai e scoprono quello che stava accadendo. Allora uno di loro sale sul legno, disposto a non farsi da parte, qualsiasi cosa fosse accaduta. Arrivano i rinforzi da Cerrisi, cioè Sestino Scalzo con il suo mitico motocarro Ape per il trasporto, e un giovane con una motosega. Subito messa in moto, si comincia a tagliare ‘u zuccu in pezzi più piccoli per poterli facilmente caricare sull’Ape. Ma ‘u Vunazzaru a cavalcioni sul legno non indietreggia, così come non si ferma quello che ha in mano la motosega che arriva a strappare i pantaloni dell’altro. A quel punto si arrende e desiste. Sembrava finita con la vittoria dei Cerrisari, i quali caricano l’Ape fino all’inverosimile e partono. Ma percorrono poche decine di metri e sentono uno strano rumore: una banda chiodata fatta di una tavoletta di legno irta di chiodi ha bucato tutte e tre le ruote del motocarro!
E oggi? L’avvento dei trattori ha reso più facile il lavoro; le ruspe hanno estirpato zucchi in grande quantità per costruire case e tracciare strade rendendo disponibile una grande quantità di materia prima. Ma proprio in concomitanza di ciò, si è assistito a una diminuzione dell’aggregazione sociale che ha portato alla scomparsa di alcune storiche fòcare e, paradossalmente, alla nascita di altre in luoghi non convenzionali. Fra quelle scomparse c’è proprio quella davanti alla chiesa di Adami.
Forse però siamo davanti a un’inversione di tendenza. In molti luoghi ho visto ammucchiati zucchi che fra pochi giorni riproporranno il secolare rito.
La notte di Natale sarà bello pensare che oltre a Gesù Bambino, quelle fiamme, salendo, salendo e linguijandu, andranno a scaldare il cuore di un’altra anima, quella di Michele Pane che, ne siamo tutti sicuri, starà guardando, anche nel buio, all’unico luogo della Terra che amava.
LE FÒCARE DEL 2011
autore Giuseppe Musolino rilevatore Ersilio Teifreto