Luglio 6, 2022

Nel segno del Tau

Nel segno del Tau

IL SIMBOLO DEL TAU

Fin dall’antico l’ospitalità era tenuta in particolare conto e l’avvento del cristianesimo la trasformò in una delle più vive e pie manifestazioni della vita religiosa. Pertanto la “hospitalia”, così fu chiamato inizialmente qualsiasi ricovero, iniziò la sua attività con una particolare organizzazione, accogliendo i viandanti, gli ammalati, i vecchi, le donne e i bambini. Il tutto sempre sotto il controllo del vescovo o di un suo rappresentante, detto “spedalingo”. Ma più tardi all’esercizio della hospitalia si dedicarono, oltre ai comuni, anche i laici, e la storia di Volterra ce ne indica molti, per cui si aprirono spedali privati, taluni detti anche “dei poveri”.

L’apertura di tali spedali fu orientata verso località di maggior disagio, cioè dove a quei tempi se ne ravvisava una particolare necessità, come sui guadi dei fiumi, sulle vie battute, sulle cime delle colline, nei castelli e nei loro borghi, dove venivano accolti i pellegrini e i bisognosi. Tale Iniziativa dette così origine ai grandi ordini ospitalieri che si riconoscevano, per tale attività, sotto Il segno del Tau.

Parlare della provenienza di tale segno non è cosa molto facile, perché esso, da quanto si dice, ha avuto origine da simboli paleocristiani in Grecia e non va trascurato anche il fatto, che presso gli Ebrei, tale simbolo era in uso e se ne servivano per segnarsi la fronte.

Tali ospitalieri furono detti, anche se impropriamente “cavalieri del Tau” e dico impropriamente perché essi appartenevano a ordini religiosi e cavallereschi ben distinti fra loro, con statuti di fondazione propri e avevano in comune solo il fine della ospitalità.

Si riconobbero sotto il segno nel Tau gli ordini dei Giovanniti o Gerosolimitani, dei Templari, dei Teutonici, degli Antoniani, dei Frati di San Lazzero e del Santo Sepolcro e della regola dell’Altopascio: quest’ultima regola era Identica a quella dei Gerosolimitani, ma autonoma.

Ora viene da domandarci perché si riconoscevano sotto il segno del Tau e cosa rappresentasse questo simbolo. Il segno del Tau è una T greca ed era il simbolo della carità infinita, usato dagli ospitalieri, per indicare ai pellegrini e ai bisognosi che presso quel luogo si curava prima l’anima e poi il corpo. Quindi si trattava di ordini religiosi e cavallereschi che usavano tale segno per far comprendere al pellegrino o all’infermo che presso di loro poteva essere alloggiato e curato sia spiritualmente che fisicamente. E’ da precisare però che detto segno non era sempre riprodotto in modo uguale da tutti gli ordini, ma per lo più era rappresentato da una croce o dalla lettera T.

Non a caso poi in tale simbolo fu ravvisato un succhiello, o una trivella, o addirittura un martello o uno strumento qualsiasi di lavoro fabbrile. Tale ravvisamento, anche se può apparire improprio, una fondatezza pratica ce l’aveva perché il compito di tali religiosi, oltre all’ospitalità, era anche quello di rendere più agevole e più sicura la strada al viandante e al pellegrino con la costruzione o di ponti sui fiumi e sui torrenti, di barche per traghetti, di case in luoghi distanti dagli abitati. Poi la fantasia popolare vide in tale segno una cruccia, un bastone o una stampella, e ciò trovava riferimento nel compito di assistenza che si erano prefissi questi religiosi, con particolare intonazione all’ordine degli Antoniani.

Chiarito, anche se in modo succinto, l’origine di questi ordini religiosi e cavallereschi, rimane da precisare che alcuni di essi, come quello della regola dell’Altopascio, oltre ad ammettere nell’attività ospitaliera i frati, i laici, i chierici e cavalieri, impegnavano anche le donne, purché vergini, le quali erano adibite a lavori a loro confacenti come impastare il pane nell’arcile, sbattere il bucato e provvedere ai lavori di cucito. La castità, prima dei voti, in questi ordini promiscui metteva a dura prova tutti gli aderenti, per cui la regola li sottoponeva a prescrizioni severissime e i frati non dovevano andare mai soli per città e castelli, ma due a due o tre a tre, qualsiasi fosse il motivo che li portava fuori della casa, come ad esempio la predicazione, la questua, i pascoli, i lavori campestri, l’esercizio delle armi. Anche quando si trovavano nella casa e, perfino, nella chiesa, comunque dove vi fossero donne, era loro proibito qualsiasi contatto con esse. Anche per le uscite dall’ospizio, la scelta delle persone e del loro numero era rimessa al maestro che, per prudenza, accoppiava vecchi a giovani, muniti sempre di un lume acceso affinché “l’ombra soffice dei boschi e della notte non li richiamasse a pensieri lascivi”.

Alla donna aderente all’ordine, in qualsiasi evenienza, era perfino proibita di mostrare le braccia nude, per cui era controllatissima in ogni circostanza, affinché il suo abbigliamento e Il suo comportamento non destassero particolari attenzioni e non poteva mai allontanarsi dalle altre consorelle, ad eccezione di quando si chiudeva nella sua cella per dormire.

Quindi il criterio generale era quello di una gestione secondo necessità e convenienza, per cui gli uomini erano serviti da uomini e le donne da donne.

Ma, a questo punto, passiamo agli ordini religiosi e cavallereschi che ci interessano più da vicino, perché operarono nella nostra antica diocesi.


Quest’ordine, meglio conosciuto sotto la denominazione di “cavalieri di Sant’Antonio da Vienne”, fu fondato nel secolo XI nel Delfinato e approvato da Urbano II nel 1095. Si trattava di monaci ospitalieri dedicati alla cura dei malati di fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio, detto anche “ergotismo cancrenoso”, che colpiva in modo particolare gli arti inferiori. Ecco quindi il perché nel simbolo del Tau veniva ravvisata anche una cruccia, un bastone o una stampella, cioè un sostegno per gli affetti da questo male che li aiutasse a stare in piedi e a camminare.

Poiché questi monaci allevavano un gran numero di malati, col cui grasso facevano un rimedio per quel male, la Ieggenda e l’arte rappresentarono Sant’Antonio sempre con un suino ai piedi. L’ordine si spense verso la fine del secolo XVIII e in Volterra gli Antoniani risiedevano presso la chiesina di Sant’Antonio, in Piazza XX Settembre, dove è tuttora visibile la T sul muro esterno.


LA REGOLA D’ALTOPASCIO

Quest’ordine è, forse, a noi più vicino non perché fondato in Altopascio, ma perché fu il più presente nella nostra zona. La più antica notizia relativa a quest’ordine è del 12 giugno 1079 e, come ho già detto in precedenza, la loro regola si identificava, sebbene autonomamente, in quella dei Gerosolomitani. Questi monaci erano già presenti nel volterrano nel 1167 con l’acquisto della chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano e relativi casa dal nobili di Montignoso, che si trova a Sensano, e nel 1219 con l’acquisto della chiesa di San Giovanni in Sorbolatico, nonché con i pascoli che da Montaione andavano fino all’Era.

La loro presenza in Volterra è certa in Piazza dei Fornelli e precisamente nella vasta costruzione in pietra che si dice sia stata, al tempo degli Etruschi, la sede del Collegio degli Auguri e successivamente la casa di Cicerone. Sebbene queste due ultime notizie non possono essere date per certe, quella che questa costruzione sia stata invece di proprietà della regola dell’Altopascio è testimoniato dalla iscrizione in caratteri gotici, tuttora visibile ma poco decifrabile. Comunque detta iscrizione fortunatamente, è riportata su un quaderno passatomi da Monsignor dell’Omo, parroco di Sant’Agostino, documento questo copiato da un detenuto, a cura del Dott. Verdiani, nel giugno del 1903, da un manoscritto originale attribuibile approssimativamente dal 1820 al 1835.

Questo quaderno riporta tutte le iscrizioni esistenti in Volterra. Detta lapide è così decifrabile: “Hoc Opus factum fuit tempore Fratis Amandi de Hospitalis Sancti Jacopi de Altipascio sub anno Domini MCCLXXXXIX cuius operis fuit frater Nainuccius de Casanova”.

La presenza della regola dell’Altopascio sembra sia stata accertata anche lungo il fiume Cecina e precisamente da Cerreto fino a Pomarance.

Nel 1291, per causa di giurisdizione, ebbe una lite con quest’ordine anche li Comune di Volterra, poiché il rettore pretendeva di non essere sottoposto al foro del potestà e, sebbene la sentenza fosse stata favorevole a quest’ultimo, la controversia si prolungò fino al 1293 e fu di dispendio e fastidio non piccolo al Comune.

© Elio Pertici, ELIO PERTICI
Nel segno del Tau, rivista “Terre del Volterrano”

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