Nel luogo di Ranverso, i monaci si insediarono quasi sicuramente intorno al 1188 su terreni donati da UmbertoIII di Savoia detto «il Beato». L’attuale complesso monastico di Ranverso è il risultato di una lunga serie di interventi architettonici e decorativi, in gran parte dovuti a Giovanni di Montchenu, nominato abate commendatario della fondazione antoniana nell’aprile del 1470.
Nel luogo di Ranverso, i monaci si insediarono quasi sicuramente intorno al 1188 su terreni donati da UmbertoIII di Savoia detto «il Beato». L’attuale complesso monastico di Ranverso è il risultato di una lunga serie di interventi architettonici e decorativi, in gran parte dovuti a Giovanni di Montchenu, nominato abate commendatario della fondazione antoniana nell’aprile del 1470.
DOMENICA, 22 LUGLIO 2018 CULTURA 17
VISITA – FONDATA NEL 1180 TRA RIVOLI E AVIGLIANA (TO), L’ABBAZIA FU LUOGO DI ACCOGLIENZA E CURA DEI MALATI LUNGO LA VIA FRANCIGENA
Sant’Antonio di Ranverso,
un salto nel Medioevo
Esistono luoghi
dove più forti
sembrano farsi
le memorie del
passato. Con la
loro silenziosa
presenza, sovente rimasta immutata nei
secoli, continuano a segnare
percorsi antichi oggi diventati marginali; raccontano di
uomini che hanno saputo integrare l’aspirazione alla solitudine e all’ascesi spirituale ai
principi della carità cristiana,
dell’accoglienza dei pellegrini, dell’assistenza e della cura
degli ammalati, soprattutto
di quelle frange estreme –
lebbrosi e appestati, affetti da
mali repellenti o contagiosi –
che la società respingeva.
«A molti, le carni cadevano a
pezzi, come se li bruciasse un
fuoco sacro che divorava loro
le viscere. Le membra, a poco
a poco rose dal male, diventavano nere come carboni.
Morivano rapidamente, tra
sofferenze atroci, oppure
continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza
peggiore della morte». È la
terribile testimonianza lasciata, intorno al 1089, dal cronista Sigeberto di Gembloux
sugli effetti di una delle tante
epidemie che imperversarono nel Medioevo, quella
di herpes zoster, il «fuoco sacro» (ignis sacer), o «fuoco di
Sant’Antonio». Ed è proprio
nella volontà di accoglienza
e di assistenza di quegli sventurati, nello spirito della più
genuina carità cristiana, da
individuare la ragione della
fondazione dell’abbazia di
Sant’Antonio di Ranverso,
oggi una delle più importanti
memorie storiche e presenze
artistiche della nostra regione.
Il complesso ha conservato
molto del suo antico aspetto
anche agricolo con l’annesso
nucleo di edifi ci contadini.
Per l’insediamento di Ranverso, a brevissima distanza dalla
strada statale fra gli abitati di
Rivoli e di Avigliana, è diventata prevalente la denominazione di abbazia. In realtà, fu
una precettoria dei monaci
ospitalieri di Sant’Antonio
abate, o Antoniani, dipendente dall’abbazia di SaintAntoine-du-Viennois, nel
Delfi nato francese. La precettoria antoniana (che fu detta
di Ranverso perché a ridosso
delle ultime propaggini del
rilievo morenico di Rivoli),
rappresentava una delle tappe di un complesso sistema
di luoghi di accoglienza e assistenza che segnava il percorso di una delle più importanti
strade dell’antichità.
La dedicazione a Sant’Antonio abate non era casuale.
La tradizione cristiana aveva
scelto il Santo come protettore degli animali domestici,
ma i monaci antoniani gli
riconoscevano soprattutto
l’«invenzione» del sistema di
curare, utilizzando il grasso
di maiale, il cosiddetto «fuoco di Sant’Antonio». L’herpes
zoster, una forma di ergotismo detto appunto «fuoco di
Sant’Antonio», era provocato
da un alcaloide contenuto
nella segale cornuta. Non esistevano rimedi o cure, ma il
grasso di maiale, con cui si ricoprivano le terribili piaghe,
evitava il contatto con l’aria e
riduceva il lancinante bruciore del «fuoco» sulla pelle.
Nel luogo di Ranverso, i monaci si insediarono quasi sicuramente intorno al 1188 su
terreni donati da Umberto
III di Savoia detto «il Beato».
L’attuale complesso monastico di Ranverso è il risultato di
una lunga serie di interventi
architettonici e decorativi, in
gran parte dovuti a Giovanni di Montchenu, nominato
abate commendatario della
fondazione antoniana nell’aprile del 1470. Alla sua committenza sono da assegnare
anche la facciata del vicino
ospedale-ospizio, sia quanto
rimane del chiostro, sul lato
sud della chiesa.
La facciata della chiesa abbaziale è segnata da tre ghimberghe molto allungate, concluse da pinnacoli e formate
da ricche fasce di formelle in
cotto, decorate a motivi geometrici e vegetali. Nel portico, o nartece, si concentra il
gruppo di sculture numericamente più consistente e di
più rilevante interesse artistico di tutto il complesso. Sono
una serie di capitelli con teste
di mostri, di animali e delicati
volti umani. Ad un anno imprecisato, ma che potrebbe
non essere molto lontano
dalla fi ne del Trecento, sarebbe da assegnare il campanile
gotico, sul lato sinistro della
chiesa.
Sugli importanti cicli di affreschi di Ranverso, tante sono
state le ingiurie del tempo,
molte le manomissioni, le
integrazioni. Quanto rimane
costituisce il lavoro di artisti
diversi, realizzati fra il Trecento e la fi ne del secolo successivo.
Le testimonianze più importanti sono oggi concentrate
soprattutto nell’area presbiteriale e nella piccola sacrestia.
A dominare lo spazio profondo dell’abside è il maestoso
polittico «Natività, Santi e
storie di Sant’Antonio abate», una delle opere più belle
e più importanti del pittore
chivassese Defendente Ferrari che la dipinse fra il 1530 e
il 1531, su committenza della
città di Moncalieri come ex
voto per la liberazione dalla
peste.
Sono tuttavia gli affreschi
presenti sui muri della prima
parte dell’abside, quelli della
vicina sacrestia e, indirettamente, gli altri delle cappelle
di San Biagio, della Maddalena e della Vergine a rappresentare il nucleo più importante e, nello stesso tempo,
più misterioso e intrigante
delle opere d’arte presenti a
Ranverso. Il dato di partenza
è dovuto a un rinvenimento
occasionale e fortuito, ma dagli effetti di straordinaria importanza. Nel 1914, durante i
lavori di restauro commissionati dall’Ordine Mauriziano,
proprietario del complesso
di Ranverso dal 1776, furono
rimossi gli stalli di un coro
ligneo addossato alle pareti dell’abside. Si scoprirono
così parti di affreschi di cui
si era persa memoria e, soprattutto, tornò alla luce una
breve epigrafe, «(Picta) fuit
ista capela p(er) manu(m) Jacobi
Jaqueri de Taurino» («Questa
cappella è stata dipinta dalla
mano di Giacomo Jaquerio
di Torino»). Era il «documento» che si cercava da tanto tempo, da quando si tentava di dare paternità a cicli di
affreschi presenti in vari luoghi del Piemonte, della Valle
d’Aosta e della Savoia. Importante, dunque, l’epigrafe
tracciata da Jaquerio sulla
modanatura a cornice che
delimita, nella parete sinistra
del presbiterio, la fascia inferiore dove sono dipinti sei
riquadri con altrettanti profeti, da quella superiore in cui
due fi nestre spartiscono la
grande composizione con la
«Vergine in trono, Bambino
e abate inginocchiato». Importante, la scritta, ma anche
ambigua, sino a diventare
rischioso trabocchetto. Un
po’ sbrigativamente, le parole ista capela indussero infatti
ad attribuire all’opera diretta
di Jaquerio tutti gli affreschi
presenti nella chiesa e nella
sacrestia. Giacomo Jaquerio
avrebbe lavorato nella chiesa antoniana in un arco di
tempo compreso fra il 1396
e il 1406. Al grande artista furono attribuiti anche tutti gli
affreschi della parete di fronte, dove in realtà sembrano
essere stati più di uno i pittori
al lavoro.
È uno degli affreschi più belli
Come arrivare
La precettoria di Sant’Antonio di
Ranverso si trova, sulla SS25, fra Rivoli e Avigliana, a sinistra, al termine di un breve viale alberato. Orari
di visita: da mercoledì a domenica
dalle 9 alle 12,30 e dalle 13,30 alle
- Chiusura: lunedì e martedì.
Info, tel 011.9367450 oppure
ranverso@ordinemauriziano.it.
e di più genuina vena popolare di Ranverso. Compare
infatti una potente, rude e
veristica scena contadina
dove due villici, una donna
e un uomo (bellissimi i volti
dei due personaggi, forse ritratti dal vero, e il particolare
del nodoso bastone al quale
sono appese cosce di maiale
che l’uomo porta sulla spalla
destra) tengono legati per le
zampe due irsuti maiali. Li
seguono, oltre il profi lo della
nicchia, alcune pecore e una
mucca dal manto fulvo.
La parte superiore della parete è invece dedicata alle «Storie della vita di Sant’Antonio
abate». I riquadri, divisi da
cornici, sono disposti su tre
fi le sovrapposte. E sempre
all’intervento di Jaquerio erano stati attribuiti in passato,
sia pure con alcuni dubbi,
anche tutti gli affreschi della
sacrestia. Il piccolo locale è
decorato con opere che sono
tra le più note tra quelle del
Quattrocento in Piemonte. A
cominciare dalla straordinaria scena della «Salita al Calvario», raffi gurazione densa e
animatissima, di una potenza
concitata di azioni e di gesti,
in un addensarsi selvaggio
di personaggi, stendardi, alabarde, picche e bandiere. Al
carattere fortemente popolaresco della «Salita al Calvario», si contrappongono altri
affreschi della sacrestia. In
particolare, le due delicatissime rappresentazioni
della «Annunciazione» e
della «Preghiera di Gesù
nell’orto del Getzemani», raffi natissimi esempi dell’elegante arte di
corte.
Franco CARESIO