L’Ospedale di Saint-Antoine-l’Abbaye e l’assistenza
antoniana dopo la riforma dell’Ordine
Grazie agli statuti riformati del 1478 è possibile avere un quadro più chiaro
sull’assistenza ai malati prodigata dagli antoniani nel Delfinato516.
L’Ospedale di Saint-Antoine-l’Abbaye e l’assistenza
antoniana dopo la riforma dell’Ordine
Grazie agli statuti riformati del 1478 è possibile avere un quadro più chiaro
sull’assistenza ai malati prodigata dagli antoniani nel Delfinato516.
- L’Ospedale di Saint-Antoine-l’Abbaye e l’assistenza
antoniana dopo la riforma dell’Ordine
Grazie agli statuti riformati del 1478 è possibile avere un quadro più chiaro
sull’assistenza ai malati prodigata dagli antoniani nel Delfinato516. In primo luogo,
gli statuti chiarivano il numero delle strutture ospedaliere gestite direttamente dalla
casa madre, assegnavano compiti precisi ad alcuni confratelli e ad alcuni malati, e
stabilivano le modalità di accoglienza e di permanenza dei malati presso il Grande
ospedale.
Le strutture ospedaliere site presso Saint-Antoine e menzionate nella riforma
erano in tutto sei: il Grande ospedale, il Nuovo ospedale, il Frecherius, l’ospedale
delle donne517, il ricovero dei lebbrosi e quello dei pellegrini poveri (l’ospedale detto
‘di Béziers’). La gestione di queste strutture era in mano ai canonici: il cellerario
dell’abbazia, che era anche precettore di Ranverso, doveva occuparsi dei malati,
515 FOSCATI, Il ‘mal degli ardenti’, op. cit., p. 66. 516 Del Liber religionis Sancti Antonii Viennensis Sacre Reformationis si è già parlato, cfr. supra, Cap.
I, § 3.
517 L’ospedale delle donne è documentato per la prima volta nel 1402. Gli ADR raccolgono una
piccola parte della documentazione relativa a questa struttura in 49 H 465-467, Hôpital des pauvres
femmes infirmes (1402-1514).
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fornendo loro medicine e alimenti e assumendo un medico che li curasse518; egli
doveva inoltre provvedere alla pensione quotidiana di 2 denari per ciascun malato e
al pagamento dei costi sostenuti dall’ospedale per la cura di essi519, nonché occuparsi
dell’alimentazione dei poveri che giungevano presso la casa madre520. Al curatopenitenziere spettava il compito di raccogliere le confessioni di infermi e religiosi521,
mentre l’infermiere doveva occuparsi esclusivamente dei religiosi che si
ammalavano522. L’elemosiniere e il suo vice dovevano occuparsi delle visite al
Grande ospedale, dell’amministrazione di esso nonché di quello di Béziers e
dovevano, infine, occuparsi delle elemosine ai poveri (pane di frumento e vino tutti i
giorni), ai malati e ai lebbrosi (pane e vino ogni domenica)523. Erano previsti anche
alcuni compiti per i malati: uno di essi, nominato magister pillon, doveva sorvegliare
i ricoverati nel Grande ospedale e si occupava dei malati poveri, affiancato da una
518 ADI, 10H 4, c. 110r. 519 ADI, 10H 4, c. 309v-310r. 520 ADI, 10H 4, c. 111r-112r. 521 ADI, 10H 4, c. 150r. 522 ADI, 10H 4, c. 142v. 523 ADI, 10H 4, c. 151r-154v. Nell’Ottocento, si è creduto che gli antoniani avessero avuto in cura i
lebbrosi, ad esempio una certa tradizione li voleva impegnati a Napoli presso un lebbrosario risalente
al 1313 accanto al quale fu edificata la chiesa S. Antonio abate fuori porta Capuana, cfr. Bolla di
Clemente XI, militantis ecclesiae e suo commento, pel sacerdote don Antonio Radente, cavaliere
dell’ordine costantiniano, e vicario di S. Antonio viennese, Napoli 1858, p. 92 e n. 2. L’accoglienza
dei lebbrosi presso Saint-Antoine è ricordata anche da Aymar Falco: «Insigne istud monasterium
summe illustrant ingentia, charitatis et pietatis opera que in eodem iugiter fiunt et exercentur. In
primis siquidem omnes sacro igne tacti, ex quibuscunque mundi partibus affluant, recipiuntur ibidem,
et quamdiu vixerint, si mutilati existant, aluntur, charitativeque sustentatur. Item pauperibus leprosis
circunvicini territorii […] Item in abbatiali domo copiose pauperum […] Item peregriis pauperibus
seu indigentibus […]». FALCO, Antonianae Historiae, op. cit., f. 105r. Ultimi tra gli ultimi, i lebbrosi
rappresentavano una categoria alla quale il buon cristiano doveva prestare assistenza, soprattutto dopo
l’esempio di san Francesco d’Assisi. È plausibile che, intendendo soccorrere gli individui affetti da
malattia mutilante, gli antoniani abbiano avuto un occhio di riguardo nei confronti dei lebbrosi ma,
allo stesso tempo, la fama taumaturgica di Antonio e del santuario nel Delfinato avrebbero potuto
attirare un certo numero di pellegrini affetti da lebbra, per i quali si è reso necessario istituire un locale
apposito. Potrebbe essersi verificata la stessa situazione nelle altre strutture gestite dai canonici? Come
è noto, nel Tardo Medioevo le autorità cittadine ed ecclesiastiche spingevano i lebbrosi ad entrare
nelle strutture ad essi dedicate, sovente gestite dagli ospedalieri di San Lazzaro, e questa costrizione
aveva la duplice funzione di tutelare l’igiene pubblica e nascondere il lebbroso, visto come simbolo
del peccato (AGRIMI, CRISCIANI, Carità e assistenza, op. cit., p. 250-251). Non si conoscono le
vicissitudini che hanno portato alla nascita degli ospedalieri di San Lazzaro di Gerusalemme, ma è
noto che si diffusero in Europa nella metà del Duecento, cfr. I. GOBRY, Cavalieri e pellegrini. Ordini
monastici e canonici regolari nel XII secolo, Roma 2000, p. 243-245. Le case dedicate ai lebbrosi
erano site fuori dai centri abitati, così come molti ospedali antoniani spesso si trovavano localizzati in
prossimità delle porte e/o extra muros. È ipotizzabile che, in alcuni casi, i canonici abbiano ottenuto
l’affidamento di lebbrosari, ma non doveva certo trattarsi di una regola fissa, vista la localizzazione
intra muros di altri ospedali antoniani.
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maestra delle donne, che vegliava sulle ricoverate durante la notte e assisteva le
povere, mentre un terzo malato si occupava della fornitura di legna per l’ospedale524.
Il capitolo 74 presentava lo statuto per l’ospedale degli infermi ‘del fuoco’ sito
presso la casa madre e per quelli localizzati presso le altre precettorie525. L’abate e i
canonici della commissione riformatrice dichiaravano che, da tempo immemorabile,
uomini e donne affetti da igne gehennali vulgariter dicto igne sancti Antonii si
recavano presso l’abbazia per essere curati e alimentati526, e ribadivano che né presso
la casa madre né presso gli altri ospedali dell’ordine si potevano fissare delle
restrizioni al numero di accesso dei malati527. Si ordinava che i malati, al momento
del loro ingresso, giurassero obbedienza e lealtà all’ordine; che vestissero
semplicemente, con un segno del Tau sull’abito, e che indossassero il cappuccio
tradizionale. Gli abiti, però, dovevano essere indossati in maniera tale da rendere
visibili le mutilazioni procurate dalla malattia, affinché suscitassero compassione e
devozione nei confronti di sant’Antonio. Sia gli uomini che le donne dovevano
vivere onestamente, tenendosi lontano dai comportamenti disonorevoli e uscendo
dall’ospedale solo con il permesso magistri pilloni o della maestra delle donne, e agli
uomini era proibito intrattenersi in compagnia delle donne malate. I nuovi arrivati,
detti dagli antoniani fréchères dal nome dell’ospedale Freche, erano sottoposti a un
controllo di accertamento: se la malattia era data dall’igne gehennali, essi erano
ammessi. Una volta guariti, i mutilati venivano alloggiati presso il Grande
ospedale528.
Alessandra Foscati, nei suoi studi sull’ignis sacer, ha affrontato anche la
questione degli antoniani come ‘guaritori’ del Fuoco di sant’Antonio529. Il suo esame
delle fonti ha riscontrato un incremento delle testimonianze a partire dalla fine del
Quattrocento e in particolare ha individuato, negli atti notarili del Cinque-Seicento
524 ADI, 10H 4, c. 226r-230v. Non è stato possibile risalire all’etimologia di magister pillon.
L’espressione è tradotta dagli storici antoniani francesi come maître pillon o du pilon. La presenza
delle donne presso l’ospedale non rappresenta una novità: sin dai primi statuti dell’ordine appariva
chiara la presenza delle sorores nella comunità, cfr. supra, Cap. I, § 2. Sulla presenza delle donne
all’interno della confraternita e dell’ospedale antoniano si erano soffermati MAILLET-GUY, Les
commanderies de l’Ordre, op. cit., e MISCHLEWSKI, Die Frau im Alltag des Spitals, op. cit. 525 ADI, 10H 4, c. 209r. 526 ADI, 10H 4, c. 209v. 527 ADI, 10H 4, c. 211v. 528 ADI, 10H 4, c. 210r-232v. 529 La specializzazione antoniana nella cura dell’ergotismo è alla base degli studi di Laura Fenelli,
Adalbert Mischleski e Italo Ruffino.
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rogati a Saint-Antoine-l’Abbaye, alcuni documenti che non solo descrivono il profilo
dei malati che si rivolgono all’ospedale, ma testimoniano anche come gli stessi
chirurghi indirizzassero i pazienti colpiti da malattia urente presso l’ospedale
antoniano. Giunti presso la struttura, i malati venivano visitati da un’apposita
commissione il cui obiettivo era accertare che la cancrena fosse originata dalla
malattia detta Fuoco di sant’Antonio e non da altro infortunio. In caso affermativo,
come stabilito dagli Statuti antoniani, i malati erano ammessi perpetuamente presso
la casa madre, alla sola condizione di accettarne e rispettarne la regola530.
Al loro ingresso presso la struttura, i malati di ignis Sancti Antonii ricevevano
il vino di sant’Antonio, o santo vinagio, ritenuto medicamento miracoloso. Si
trattava di una bevanda esclusiva, preparata dagli stessi canonici, detentori delle
reliquie del santo: le spoglie di Antonio rappresentano l’ingrediente base della
preparazione. Ogni anno, in occasione della festa dell’Ascensione, il vino veniva
filtrato nella cassa contenente le reliquie, acquisendo così valore taumaturgico. Il
vinagio beati Antonii e la sua preparazione sono testimoniati in un sermone del XV
pubblicato dai Bollandisti e nella Antonianae Historiae del Falco, nella quale la
procedura di preparazione è collocata quasi al principio della storia della fraternità
antoniana ed è indicata come un’esclusività che godeva dell’assenso pontificio531.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il vinagio fosse miscelato con alcune erbe,
abbondantemente sfruttate all’epoca in questione per preparare decotti e altri
medicamenti, e più recentemente si è ritenuto che il vino fosse somministrato in
abbondanti quantità in ragione delle sue proprietà anestetiche e vasodilatanti532.
Tuttavia, come già spiegato dalla Foscati, tale utilizzo del vinagio poteva essere
originato da conoscenze mediche specifiche tanto sulla malattia quanto sulle erbe
medicinali e sulle proprietà del vino, ma non è possibile dimostrare che gli antoniani
530 FOSCATI, Ignis sacer, op. cit., p. 162-163. 531 La légende de saint Antoine traduite de l’arabe par Alphonse Bonhome, ed. a cura di. F. Halkin,
«Analecta Bollandiana», 60 (1942), p. 143-212, p. 145 n. 2; FALCO, Antonianae Historiae, op. cit., f.
52v.
532 Cfr. G. ENGEL, Das Antoniusfeuer in der Kunst des Mittelalters: die Antonites und ihr
ganzheitlicher Therapiensatz, «Antoniter Forum», VII (1999), p. 7-35; FENELLI, Il tau, op. cit., p.
185-186.
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dei primi secoli avessero queste competenze, anche se le proprietà vasodilatanti del
vino erano note già ai medici dell’Antica Grecia533.
Secondo altri studiosi l’utilizzo delle erbe medicinali sarebbe dimostrato
dall’iconografia antoniana, e in particolare nella famosa pala d’altare di Isenheim
realizzata da Matthias Grünewald534. L’interpretazione di quest’opera pittorica data
da Andrée Hayum, e ripresa da Laura Fenelli535, vede nelle tavole dei precisi
riferimenti all’attività di assistenza degli antoniani e all’invocazione di sant’Antonio
abate contro l’ignis gehennali. Nella tavola rappresentante le tentazioni di Antonio,
la figura all’altezza dell’osservatore appare come un malato sofferente, mentre nella
tavola raffigurante l’incontro tra sant’Antonio e san Paolo sono rappresentate alcune
piante facilmente riconoscibili, quali la verbena, il platano e il pioppo, dagli effetti
sedativi e vasodilatatori, o altre piante dalle proprietà emostatiche e antinfiammatorie
come l’ortica, e ancora piante dagli effetti disinfettanti come la piantaggine,
emollienti come la veronica o antispasmodici come il ranuncolo bulboso. La teoria è
rafforzata dal fatto che la verbena, il platano e il pioppo sono indicate contro il Fuoco
di sant’Antonio in alcuni erbari del XV e XVI secolo536.
La guarigione dei malati di ignis Sancti Antonii è stata anche attribuita, nel
corso del tempo, al cambio di alimentazione, che doveva seguire le regole imposte
dai canonici. Anche questa considerazione è legata all’idea che gli antoniani avessero
nozioni di medicina: si è ritenuto che l’alimentazione basata sul pane di frumento
consentisse ai malati di ergotismo di ripulire l’organismo dall’intossicazione
procurata dal pane di segale cornuta, e che la gaurigione fosse coadiuvata
dall’apporto di proteine dato dal consumo di carne di maiale537. Tuttavia, un simile
533 FOSCATI, Ignis sacer, op. cit., p. 134-136, e nota 472 a p. 134; cfr. anche FENELLI, Il tau, op. cit.,
p. 183 e p. 186. L’assenza di testimonianze antecedenti al XV secolo porta la Foscati a escludere che
gli antoniani utilizzassero il vinagio sin dai primi tempi della loro attività. 534 Cfr. supra, Cap. I, § 4. 535 FENELLI, Il tau, op. cit., p. 187-189. 536 Cfr. HAYUM, The Isenheim Altarpiece, cit., p. 13-52. Sulle piante individuate e le loro funzioni
oltre a FENELLI, Il tau, op. cit., p. 188, nota 256, cfr. C. NEMES, M. GOERIG, The medical and surgical
management of the pilgrims of the Jacobean Roads in medieval times. Part 2. Traces of ergotism and
pictures of human suffering in the medieval fine arts, «International Congress Series», 1242 (2002), p