La Domus di Sant’Antonio di Ranverso.
La Domus di Sant’Antonio di Ranverso.
L’ordine degli antoniani fu attivo anche in area lombarda31, area per la quale sono ricostruibili alcuni contratti relativi alla questua. Il 27 febbraio 131732 a Milano, nella domus milanese degli antoniani sita in porta Romana, si riunirono diverse persone per stipulare un contratto (di una certa solennità) di affitto della riscossione delle questue nel nome di sant’Antonio. Era presente anzitutto il precettore e amministratore della precettoria di Sant’Antonio di Cremona e di un’altra domus antoniana sita a Daniata, nella diocesi di Cremona, frate Guglielmo de Caluxiis, che viene detto essere di Vigone, ossia della stessa località della diocesi di Torino dalla quale proveniva anche uno dei notai presenti, tal Giovanni de Caluxiis, figlio di Bertolino, residente in Vigone. Evidentemente legami parentali si univano a interessi che la comune provenienza piemontese rende più che plausibili, in ragione dell’importanza che la precettoria di Ranverso aveva nella gerarchia delle domus dell’ordine in Italia. Era poi presente anche il precettore della domus milanese, frate Ponzio Bessio, che viene indicato nel documento come colui al quale sarebbe spettato il ruolo di arbitro nel caso di conflitti tra le parti. Il contratto non riguardava Milano, ma le diocesi di Cremona, Mantova e Lodi (queste ultime solo per metà). Infatti frate Giacomo, figlio del fu Francesco de Menavia, residente a Padova, otteneva l’affitto «nominative de bayliviis et questis que fiunt et fieri consueverunt et fient sub nomine beati Antonii» per i nove anni successivi, a partire dall’inizio del mese di aprile seguente. Il contratto prevedeva, ovviamente, anzitutto le condizioni economiche, che consistevano complessivamente nella somma non irrilevante di 3.375 fiorini d’oro di Firenze, corrispondenti a 375 fiorini annui, da pagarsi alla festività di Ognissanti, nella domus cremonese o in quella milanese. Emerge in modo chiaro il ruolo che la domus di Milano stava assumendo all’interno dell’ordine antoniano (arbitrato, luogo di versamento del canone), che trova corrispondenza nella particolare attenzione che i signori di Milano, i Visconti, ebbero per gli antoniani, a partire da Azzone e Giovanni, ma poi in particolare con Bernabò Visconti: la protezione nei confronti delle domus antoniane si manifestò anche tramite l’esenzione dai tributi, ordinari e straordinari33. Tornando ai patti stipulati, l’affittuario si impegnò a restituire alla fine dei nove anni al precettore della domus tutto quanto era connesso al diritto di questua («litterae, privilegia, procurationes et scripturae»). Per quanto la raccolta delle elemosine. Nel 1315 Aymone di Montaigne, l’abate generale degli antoniani, dava infatti indicazioni precise sulle modalità di raccolta delle elemosine (oltre ad altri importanti incarichi); nel 1492 a Foligno l’abate della precettoria di Firenze, responsabile per tutti gli ospedali del centro Italia, emanava le Constitutiones alle quali dovevano attenersi i questuarii, per evitare che fossero messi in atto comportamenti non corretti nella raccolta delle elemosine in onore di sant’Antonio. 31 Si veda il volume di Filippini, Questua e carità, che presenta un’interessante raccolta di fonti e un’attenta analisi della presenza antoniana e delle modalità di raccolta delle elemosine in area lombarda. 32 Originale in Biblioteca di Cremona, Pergamene Libreria Civica, pubblicato in Filippini, Questua e carità, pp. 219-222. 33 Filippini, Questua e carità, pp. 51 sgg. 164 Giuliana Albini Reti Medievali Rivista, 17, 1 (2016) [10] riguardava il contratto di questua, oltre alla promessa di restituire i diritti senza che fossero gravati di debiti, frate Giacomo si impegnò, anche a nome di coloro che sarebbero stati concretamente impegnati nella questua (definiti «sergentes et sequaces»), a non comportarsi in modo disonesto e a non servirsi di persone disoneste, cerretani34 o ribelli all’ordine antoniano. Tra gli obblighi che si assunse frate Giacomo vi furono anche quelli di provvedere alle necessità degli ospedali sino a una spesa di 25 fiorini all’anno. Pare inoltre che il precettore Guglielmo si fosse ben tutelato nei suoi interessi personali. Infatti, egli fece inserire come clausola contrattuale l’obbligo per frate Giacomo (che provvide in tal senso) di dare a lui personalmente, a titolo di mutuo, 300 fiorini d’oro, che gli sarebbero stati scalati pro rata dai pagamenti degli anni successivi. Come dimostra questo caso, intorno alla concessione delle questue si muovevano interessi economici (e denaro in particolare) consistenti; le concessioni di riscossione erano sicuramente occasione di arricchimento personale e il richiamo a comportamenti consoni fa intravvedere situazioni di cattiva gestione ma sembrerebbe anche ribadire come, almeno formalmente, la cessione dei privilegi di questua fosse subordinato al rispetto di principi di onestà. La protezione accordata dai Visconti all’ordine di Vienne trova conferma in molti atti. Nel novembre 1358 Bernabò Visconti, signore di Milano, comunicava a tutti i propri ufficiali (podestà, giudici, rettori, ecc.) di aver preso sotto la sua protezione tutti gli appartenenti all’ordine di sant’Antonio di Vienne con i loro beni e diritti, e in particolare frate Bertrando, precettore della domus di Ranverso e di tutta la Lombardia. Non solo. Chiedeva che si perseguissero coloro che, falsamente, dichiaravano di questuare in nome di sant’Antonio: insuper, quoscumque falsos questores petentes et recipientes vota, legata, elemosinas et quae alia sub nomine et vocabulo beati Antonii nec non signum dicti ordinis tenere deferentes ac etiam campanellas portantes et fratres rebelles inhobedientes dicti Ordinis facientes contra vel preter voluntatem et mandatum predictorum domini fratris Bertrandi procuratorum et aliorum Ordinis arestent, capiant, detineant et ad civitatem nostram Mediolani expensis dicti preceptoris Ordinis prelibati personaliter conduci faciant35. Bernabò Visconti doveva però far fronte ai conflitti con ospedali locali (non dipendenti dall’ordine antoniano) che costituivano, nella maggior parte delle città dell’Italia settentrionale, la vera rete ospedaliera. Infatti, la tradizione municipale vedeva una netta prevalenza di ospedali che erano sorti al di fuori degli ordini ospedalieri. Questi ultimi, pur presenti (oltre agli anto34 Sensi, Cerretani e ciarlatani nel secolo XV. 35 Lettera inserta in altra lettera inviata all’ospedale Rodolfo Tanzi di Parma (copia in ASPr, Antichi Ospizi Civili, Rodolfo Tanzi, busta n. 8), pubblicata in Filippini, Questua e carità, pp. 230-231. 165 L’economia della carità e del perdono Reti Medievali Rivista, 17, 1 (2016) [11] niani, i gerosolimitani, i templari)36 in quest’area, avevano un peso meno rilevante nell’erogazione dell’assistenza a poveri e malati37. Nel caso particolare, Bernabò Visconti doveva rispondere alle proteste del più grande ospedale di Parma, il Rodolfo Tanzi, intitolato, tra gli altri, a sant’Antonio, che si vedeva contrastata la possibilità di elemosinare da parte degli antoniani. Il rettore, i fratres, gli infermi e i bambini esposti dell’ospedale lamentavano infatti di essere indebitamente molestati da frati dell’ordine antoniano, nel momento in cui chiedevano e ricevevano elemosine38. Eppure, anche il Rodolfo Tanzi poteva godere di una serie di privilegi ottenuti nel suo secolo e mezzo di esistenza39 da autorità laiche ed ecclesiastiche. Nel 1302 il vescovo di Parma, Papiniano, concesse quaranta giorni di indulgenza a coloro che avessero visitato la chiesa dell’ospedale nei giorni delle festività della vergine Maria, del beato Antonio (e qui nasceva evidentemente il contrasto con gli antoniani), della beata Caterina, nel lunedì di Pasqua e nell’anniversario di consacrazione della chiesa. Nel 1304 tale indulgenza fu estesa dal vescovo anche a coloro che avessero aiutato con elemosine i fratres del Rodolfo Tanzi che questuavano nella diocesi di Cremona40. Bernabò risolveva, temporaneamente, la questione delle elemosine, confermando i privilegi agli antoniani e il suo sost
egno al Rodolfo Tanzi, che avrebbe potuto godere degli stessi diritti. Quindi, di fatto, non risolvendo la conflittualità. Infatti la questione era assai complicata, e gli interessi economici erano evidentemente molto forti. Attraverso una lettera inviata il 19 novembre 1371 da Pietro de Sortenac, cappellano del papa e uditore delle cause discusse in Avignone, a frate Paolo Acori dell’ospedale di Sant’Antonio di Erbusco (nel bresciano)41 si apprende che già dal tempo del papato di Innocenzo VI (quindi in coincidenza con gli anni della lettera di Bernabò) era stata portata davanti al pontefice una supplica del procuratore del monastero di Sant’Antonio di Vienne e della domus di Ranverso, che aveva dato luogo a un lungo contenzioso, allora ancora aperto (e del quale non si conosce l’esito). Senza entrare ora nel dettaglio della vicenda, basti evidenziare come il contenzioso (legato alla raccolta delle elemosine) vedesse coinvolti, secondo quanto indicato negli atti, non solo l’ospedale di Erbusco ma molti ospedali del dominio dei Visconti intitolati a sant’Antonio, ossia quello di Parma e tanti altri (Bergamo, Reggio Emilia, Mantova, Como, Cantù), non dipendenti dall’ordine, che erano accusati di agire a danno degli antoniani, riservandosi diritti sulla riscossione