Gianfranco TestaGrossa
Gianfranco TestaGrossa
- Sapendo quanto sia raro incontrare fra intenzioni e risoluzioni una concordanza che non sia puramente teorica, e magari velleitaria, questo pittore, che si direbbe perseguire una via alquanto inusitata rispetto ai modelli correnti, appare assai consapevole degli aspetti più espliciti del suo lavoro. Materia povera, figurazione istintiva, innocenza, semplicità: i termini più frequenti sono questi. E per quanto non sia chiaro se il tono con il quale Testagrossa si confessi, sia di modestia e di segreta fermezza, certamente corrisponde a quanto le opere, a una prima osservazione, sono pronte a testimoniare. Fissate in una tonalità unica di terre chiare, o ambrate, o bruciate; immerse in un colore consunto, da affresco che tende ad allontanare ogni effetto in una luce che pur intuendosi mediterranea si manifesta sempre come crepuscolare, assorta, come se il momento privilegiato fosse quello del transito verso la notte – e nulla vieta di intendere quel silenzio sopravvivente come una metafora più o meno consapevole; più che staccarsi da questo magro impasto di materia, già di per sé allusiva a un certo primitivismo di visione, le figure vi si immobilizzano, quasi non fossero altro che impronte sul punto di scomparire. Dalla tela e dalla memoria…Malgrado la struttura delle forme lasci intendere una sorta di monumentalità arcaica, con accenni al menhir, alla colonna, alla pietra sacrificale, e malgrado i soggetti (gli oggetti), figure umane e animali, siano rilevati da ombreggiature, ciò che caratterizza questa pittura non è, come invece sembrerebbe, più un’insistenza plastica apparentemente più consona ad un’evoluzione di tipo mistico pastoriale, ma piuttosto il segno, la graffiatura, l’incisione, con un immediato rimando dall’affresco all’arte rupestre. Da cui, ancora una volta, la diffusa sensazione di un intenso desiderio di recupero: del tempo, o forse, meglio, di un modo di essere nel tempo, secondo gesti solenni, silenziosi. E tuttavia non per questo sereni. Questo “ritorno”, per il quale il pittore si avvale (facendoli suoi) di modi stilistici di lontana provenienza e che comunque non mi stupirei si fossero stati filtrati da artisti che a loro volta li fecero propri, e per il clima austero e, sacrale magico, si potrebbero avanzare con cautela i nomi, fra loro, non poi così contraddittori, di Marino Marini, o del Licini delle Amalasunte. Questo “ritorno” non è privo di perplessità. E non a caso le figure assumono in genere atteggiamenti d’attesa e di stupore, e ci appaiono infatti, in qualche luogo, quasi riassorbite nella materia, o frammentarie, così come a tratti e non meno significativamente se questo “ritorno” lo intendiamo un momendo emblemativo del “continuum” del ciclo naturale, ci appaiono sovrapposte, incrociate, fatte fra loro simili per incessanti metamorfosi, restituite all’energia che le genera, e che il pittore si sforza di trattenere. Così che quanto resta da contemplare non è tanto la traccia incerta di un tempo irrecuperabile, quanto la riaffermazione di una presenza.