E veniamo a Sant’Antonio Abate di Ranverso stigmatizzato da Dante: «Di questo ingrassa il porco Sant’Antonio, / e altri assai che sono ancor più porci…» (Par., XXIX, 124-125).
E veniamo a Sant’Antonio Abate di Ranverso stigmatizzato da Dante: «Di questo ingrassa il porco Sant’Antonio, / e altri assai che sono ancor più porci…» (Par., XXIX, 124-125).
E veniamo a S. Antonio Abate di Ranverso, la cui venerazione, ampiamente documentata nell’Alto Monferrato, ha assunto curiosi risvolti folclorici che si sono conservati fino ai giorni nostri. Tra i protagonisti dell’epopea cristiana di cui parla Jacopo da Varazze nella sua “Legenda aurea”, questo santo occupa una posizione di primo piano, ma di lui si hanno poche notizie sicure: anacoreta egizio del IV secolo, dopo aver distribuito i suoi beni ai poveri si ritirò nel deserto macerandosi nella preghiera e nella meditazione; la tradizione ne fa il padre del monachesimo e gli agiografi lo esaltano per aver ingaggiato, per quasi un secolo, una quotidiana ed estenuante lotta con il Maligno. Il tema delle tentazioni di S. Antonio ispirò artisti e letterati di ogni tempo, da Bosch a Grùnewald a Flaubert, e fu accolto dalla Chiesa come simbolo della drammatica e incessante tensione verso la perfezione cristiana, ma nella religiosità popolare ebbe sempre un posto secondario rispetto a quello connesso con la proprietà terapeutica del santo, di guarire 117 cioè la malattia che da lui prese il nome. Secondo l’agiografia, un’epidemia di questo male sarebbe stata sconfitta da S. Antonio, donde un culto che fece dell’anacoreta uno dei taumaturghi più popolari, superato forse soltanto dai SS. Rocco e Sebastiano. Tuttavia, rispetto a quella riservata ai suoi più noti colleghi, la devozione di cui fu circondato trascese il fatto strettamente religioso, perché fu all’origine dell’ordine monastico degli Antoniani, che intorno al Duecento ottenne grande rinomanza nel dare assistenza a pellegrini, poveri e infermi, in particolare ai sofferenti di ergotismo o “fuoco di S. Antonio”. Questo morbo, oggi praticamente scomparso, consisteva in un avvelenamento da segale “cornuta” usata nella panificazione e si manifestava con crisi convulsive, senso di fuoco agli arti, bolle sierose, ulcere cutanee e cancrena: era una malattia dei ceti subalterni, dall’eziologia per secoli sconosciuta, subita ma anche “vista”, per i suoi effetti spettacolari, come segno della collera divina così da imporre forme devozionali di tipo penitenziale o votivo. Naturalmente, essendo il male legato alla coltura della segale, le aree più colpite — specie nel Basso Medioevo e all’inizio dell’età moderna, quando la produzione di questo cereale ebbe un forte incremento — erano quelle settentrionali, soprattuto la zona pedemontana. È noto infatti che il cereale, per le sue doti di resistenza alla basse temperature, ha sempre trovato nelle valli alpine e nella pianura padana un ambiente ottimale, e già Plinio ne attesta la coltura presso i Taurini (quindi in area piemontese) prima della colonizzazione romana. Lo stesso scrittore latino aveva ragione di ritenere la segale un grano scadente, utile solo per vincere la fame, ma alle modeste proprietà nutritive della pianta faceva riscontro un adattamento a terreni di montagna e di collina che il frumento non possedeva. Ancora negli anni ’60 del nostro secolo il Piemonte era al primo posto in Italia per la produzione di segale (con il 30% del totale nazionale); oggi il primato spetta alla Lombardia, ma la nostra regione resta ai primi posti insieme con il Trentino, anche se tale coltura ora si è molto ridotta e serve esclusivamente all’alimentazione animale. Data la connessione ergotismo-segale, non sorprende che S. Antonio Abate abbia avuto proprio in Piemonte una eccezionale popolarità. Una conferma di quanto sopra ci viene dalla toponomastica, infatti l’Annuario generale dei Comuni e delle Frazioni d’Italia, edito dal T.C.I. nel 1985, enumera 54 località con il nome del santo: di esse ben 41 sono nel Nord e la regione che ne conta di più è il Piemonte con 15, di cui 2/3 concentrati nelle province di Torino e di Cuneo. C’è poi da considerare la vicinanza della nostra regione al centro di diffusione di questo culto – il Delfinato e in particolare la città di Vienne nei cui pressi si custodiscono le spoglie del santo. Non solo: questa città e la regione circostante nei secoli centrali del Medioevo 118 appartenevano ai Savoia, e fu proprio il Conte sabaudo Umberto II che alla fine del Mille promosse l’erezione di precettorie antoniane al di qua delle Alpi. L’ordine ospedaliere dei canonici regolari di S. Antonio Abate, fondato a Vienne nel 1095, aprì delle sedi — le precettorie, appunto — in vari centri dell’alta Italia, ma più sensibile fu la sua presenza in ambito pedemontano: tuttora l’Abbazia di S. Antonio di Ranverso presso Torino è il principale complesso religioso originato dal culto del santo anacoreta7. Per quanto riguarda la nostra provincia, “case” antoniane con annesso ospedale vennero fondate ad Alessandria, Casale, Felizzano, Sale, Tortona e Valenza, tra XIII e XIV secolo8, e il fatto che sorgessero nelle località citate, cioè lungo importanti vie di traffico, fa supporre una loro destinazione assistenziale a favore dei pellegrini oltre che ospedaliera. Così l’ospedale di S. Antonio Abate ad Ovada, sorto nel sec. XV per dare asilo ai pellegrini e adiacente ad una trecentesca chiesa dedicata al santo, probabilmente non fu che la trasformazione di una sede antoniana il cui impulso originale dovette essere quello di assistere gli ergotici. È curioso notare che il prestigio dei canonici di S. Antonio cominci a declinare, tra il XV e il XVI sec., proprio quando la popolarità del santo sembra giungere all’apice, come dimostrano il ricco apparato figurativo e i numerosi oratori che gli vengono dedicati. Infatti, mentre la missione ospedaliera degli Antoniani cede il passo ad enti religiosi più calati nella realtà del tempo (ad es. i Cappuccini) e soprattutto all’autorità politica preoccupata di controllare il potenziale eversivo insito nella morbilità e nel dilagante pauperismo, si assiste in quei secoli agli sconvolgimenti provocati da guerre e carestie che acuiscono i mali di una società già debilitata da sottoalimentazione ed esposta alle più disparate malattie. Accanto alle ricorrenti pestilenze, specialmente nelle campagne si ha il riacutizzarsi di malattie dovute alla fame e all’ingestione di pericolosi surrogati del pane. Nelle zone come la nostra, dove per secoli la segale ha conteso lo spazio ad altri cereali, riprende vigore il “fuoco di S. Antonio”, con inevitabile aumento di popolarità del santo, di cui sono testimonianza le numerose espressioni artistiche e la stessa toponomastica. Ma all’inizio dell’età moderna altri fattori contribuiscono al diradarsi degli ospedali antoniani: la scomparsa dei pellegrinaggi a lungo raggio tipici della religiosità medievale, sostituiti da forme di culto più interiorizzate, e l’allentarsi dello spirito pauperistico ed umani7 I. RUFFINO, Studi sulle precettorie antoniane piemontesi. Sant’Antonio di Ranverso nel XIII secolo, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 1956 (LIV), pp. 5-40. 8 N. M. CUNIBERTI, I monasteri del Piemonte e i principali d’Italia, Chieri, Bigliardi, 1975 119 tario delle prime precettorie, per altro già stigmatizzato da Dante: «Di questo ingrassa il porco Sant’Antonio, / e altri assai che sono ancor più porci…» (Par., XXIX, 124-125). E per restare dalle nostre parti, non è senza ragione se a un certo momento i beni degli ospedali antoniani di Alessandria e Casale vengono affidati rispettivamente ai Domenicani e ai Francescani. Nell’iconografia S. Antonio è raffigurato come un vecchio dall’aria serena e rassicurante, circondato dai suoi attributi tradizionali: il bastone a “tau”, la campanella, spesso la fiamma e il porcellino. Prima di affrontare la lettura di questi simboli, va osservato che a fronte di un abbondante repertorio figurativo di questo tipo, dall’evidente carattere espiatorio-votivo, esiste nella nostra provincia una sola illustrazione delle tentazioni di S. Antonio, ed è una tela cinquecentesca di Defendente Ferrari conservata nella pinacoteca di Alessandria. In realtà le espressioni artistiche ispirate al culto di S. Antonio nascono in ambiente contadino e nella loro immediatezza e semplicità colgono del santo le qualità taumaturgiche e propiziatorie; al contrario, il tema delle tentazioni com
e monito a sottrarsi alle lusinghe del mondo è estraneo alla sensibilità popolare e comunque secondario di fronte all’ossessione nutrita per secoli dalla gente di campagna per il “fuoco di S. Antonio”. D’altra parte non è casuale che nelle chiese dell’Alessandrino quasi tutte le immagini del santo si trovino dipinte all’altezza degli occhi, su pareti o colonne o pilastri, come per ottenere una diretta comunicazione tra il santo stesso e i devoti. In area acquese e ovadese i più antichi dipinti del santo — a parte un trecentesco e frammentario affresco nell’ex sala capitolare del S. Francesco di Cassine — sono del sec. XV e presentano una grande uniformità tematica, come succede sempre in opere aventi carattere propiziatorio o di “ex voto”. A volte il soggetto è solo, in posizione eretta e frontale, con uno o più attributi che lo contraddistinguono, e occasionalmente affiancato da devoti che in genere sono gli stessi committenti: così lo vediamo nel S. Francesco di Cassine, nel duomo di Acqui (sec. XV) e nel S. Giovanni di Lerma (sec. XVI). Più spesso è in compagnia della Madonna — l’intermediaria per eccellenza tra l’uomo e Dio — e di santi popolari nei nostri paesi, e cioè 1 pellegrini, quali Giacomo e Bovo, e quelli invocati per allontanare epide mie, malanni di varia natura, pericoli, epizoozie ecc.