Affreschi di San Nicola in Val Di Susa.
Affreschi di San Nicola in Val Di Susa.
Monastica Novaliciensia Sancti Benedicti
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Gli affreschi nicolaiani dell’abbazia di Novalesa
DiClaudio Bollentini
OTT 17, 2021 abbazia di novalesa, affreschi, cappella sant’eldrado, claudio bollentini, francesco babudri
Riproponiamo, dopo sessant’anni, uno scritto raro e prezioso di Francesco Babudri – pubblicato a suo tempo in soli 180 esemplari fuori commercio – che offre l’accurata descrizione di parte degli affreschi della Cappella di sant’Eldrado, presso il complesso monastico dell’Abbazia della Novalesa.
Introduzione
Francesco Babudri, storico e scrittore, nacque a Trieste in una famiglia di calzolai il 26 novembre 1879; si spense a il Bari 27 agosto 1963.
La sua fama di prolifico narratore e poliedrico uomo di cultura è strettamente legata all’Istria, per quanto riguarda la prima parte della sua vita; e alla Puglia, per quanto riguarda la seconda.
Trasferitosi in giovane età a Parenzo, divenne segretario della locale Società Istriana di Archeologia e Storia Patria (1908-1919). Dal 1924 al 1931 lavorò nel Civico Museo di Storia ed Artea Trieste. Due impegni di alto livello che lo spinsero inevitabilmente a studiare e a ricercare.
In seguito, nel 1931, si trasferì a Bari. Complice, l’ottenimento di un importante incarico nella Fiera del Levante, a quei tempi una delle principali manifestazioni fieristiche dell’intero Mediterraneo.
Nel periodo triestino fu inizialmente attivo su argomenti inerenti alla storia antica della Chiesa e la storia dell’arte in generale. Successivamente rivolse l’attenzione a tematiche storiche prettamente istriane, specialmente quelle legate al territorio parentino e a quello di Trieste. Note in questo periodo le collaborazioni con le riviste Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria (I vescovi di Parenzo e la loro cronologia, 1909; Le antiche chiese di Parenzo, 1912; La villa rustica di Sesto Appuleio Ermia presso S. Domenica di Visinada, 1920) e Archeografo Triestino (Cronologia dei vescovi di Capodistria, 1910, Nuovi contributi su Cissa-Rubino, 1926).
Notevoli per interesse i saggi sul folklore istriano, soprattutto quelli sulle canzoni popolari della suddetta penisola adriatica, tra i quali Rime e ritmi del popolo istriano (Pagine Istriane, 1906-1908), Ancora rime e ritmi del popolo istriano (Trieste 1910) e altri generi della tradizione orale (Maldicenze paesane di Trieste e dell’Istria, Milano 1921). In gioventù, prima di cimentarsi nella storia locale, fu anche apprezzato poeta (Carmina, Parenzo, 1900; Nova Carmina, Capodistria, 1901) e narratore di racconti brevi. Di questa prima parte della sua esperienza di cultore di storia e tradizioni locali, resta un dettagliatissimo resoconto nella Bibliografia de´ miei scritti (settembre 1900-settembre 1931).
Dopo il trasferimento a Bari si è dedicato completamente allo studio della storia pugliese e dell’Italia meridionale, attività che lo ha impegnato per oltre un trentennio, fino alla scomparsa. In questo ambito di ricerca e di studio raccolse sicuramente i risultati migliori della sua eclettica passione storica, artistica e letteraria. Istria e Puglia, al di là del comune denominatore del mar Adriatico, non sono così distanti come si potrebbe immaginare guardando semplicemente una cartina geografica. Babudri stesso fu testimone oculare, ad inizio secolo scorso, degli stretti rapporti tra triestini e pugliesi. Era quella l’epoca dell’irredentismo italiano nelle terre della Venezia Giulia e della Dalmazia. Inoltre, grazie alla Società di Navigazione «Puglia» che allora dominava gli scambi commerciali tra quelle due sponde dell’Adriatico, moltissime erano le occasioni di contatto tra le due. Velieri e piroscafi non solo garantivano assidue relazioni economiche tra quelle due regioni, ma mantenevano rapporti stretti tra le popolazioni dell’Italia libera e della Trieste ancora in mano austriaca.
In quegli anni di lotte e di sogni, di propositi di libertà, i marinai si trovarono più o meno consapevolmente ad operare in prima linea per la causa del completamento dell’unità nazionale. Basti ricordare in questo contesto la figura di Matteo Renato Imbriani. Fu in quella occasione che il Babudri conobbe i pugliesi, un primo contatto che si rivelò foriero di inaspettati sviluppi culturali quando anni dopo, complice come detto un incarico importante ottenuto nella Fiera del Levante, dovette trasferirsi a Bari. Tolti quindi i panni dello storico e del cultore delle tradizioni locali triestine ed istriane, indossò quelli dello studioso di storia pugliese e dell’Italia meridionale. Entrò quasi subito nella Società di Storia Patria per la Puglia e da quel proscenio riprese la sua febbrile attività di scrittore. Articoli, presentazioni, saggi e ricerche si susseguirono con ritmo intensissimo fino agli ultimi giorni della sua vita, completando una bibliografia sterminata. È quindi impossibile elencare la sua intera produzione in terra pugliese. Di essa però non si possono tacere l’impulso dato alla redazione del Codice Diplomatico barese; il lavoro sul poeta duecentesco barese Sclavus (Schiavo da Bari) che gli consentì di approfondire uno spaccato sulla vita locale tra il Mille e il milleduecento, quando i traffici locali erano dominati da mercanti e navigatori; i tanti saggi sugli artisti e sull’arte locale; gli studi sulla basilica di san Nicola a Bari e sui tesori in essa contenuti.
Ed è proprio san Nicola a portare il Babudri in val Cenischia, alle falde del Moncenisio in Piemonte, nella abbazia benedettina dei santi Pietro e Andrea di Novalesa (TO). All’interno di questo sito abbaziale, precisamente nel parco, si trova una cappella dedicata a sant’Eldrado, preclaro abate vissuto nel IX secolo. Questa chiesina conserva all’interno un pregevole ciclo di affreschi risalenti al XII secolo tra i quali spiccano quelli relativi ad alcuni episodi della vita di san Nicola di Bari.
In realtà Babudri di questi affreschi non ne sapeva nulla. Se ne trovò in maniera inaspettata coinvolto indirettamente da un certo ing. Sebastiano Cimaz, originario di Novalesa, ma residente a Torino, appassionato anche lui di storia e arte locale ed allora impegnato a rivalutare le antiche vestigia novaliciensi. Costui, nel gennaio del 1955, contattò la basilica di san Nicola di Bari per avere notizie sicure e spiegazioni esaurienti dei sei affreschi nicolaiani presenti nella cappella di sant’Eldrado. L’allora priore della basilica barese girò la richiesta a Babudri, ritenendolo il miglior interlocutore possibile per rispondere a tale precisa richiesta. Questi redasse immediatamente un agile studio di una ventina di pagine che sicuramente, ancora oggi, rappresenta un valido strumento di interpretazione di questi singolari affreschi.
Non finì lì il carteggio tra Cimaz e Babudri: arrivarono infatti sulla scrivania dello studioso triestino-barese fotografie e tante altre informazioni utili tali da dover rettificare il primo scritto. Babudri alla fine rifece il suo lavoro che però rimase inedito.
Grazie al prof. Nicola Roncone che lo ha ripescato dall’oblio, oggi possiamo rileggerlo con piacere.
La parte di tale scritto che riguarda gli affreschi nicolaiani [l’unica qui riprodotta] è sicuramente un contributo originale ed interessante per chi si diletta di storia valsusina e soprattutto novaliciense. Che oggi, tra l’altro, è retta di nuovo da una comunità di monaci benedettini, a differenza degli anni cinquanta, periodo in cui il sito era ancora disabitato e versava in pessime condizioni ambientali.
Gli affreschi nicolaiani dell’ex abbazia della Novalesa di Francesco Babudri è contenuto nel volume miscellaneo, curato appunto dal professor Nicola Roncone, intitolato Veneris praemia in nuptis. Trattasi di una edizione fuori commercio, realizzata con una tiratura di 160 esemplari in occasione delle nozze Roncone-Lucchetti. Sessant’anni dopo è quindi ripreso il carteggio Bari-Novalesa, a parti invertite, però.
Non c’è più il Cimaz a Novalesa, ma di nuovo i benedettini nell’abbazia, attenti ad integrare la narrazione più che millenaria di questo storico sito con i migliori studi sull’argomento.
Claudio Bollentini
* * *
Qui di seguito il saggio di Babudri:
Questa mia nota trae origine dalla richiesta, che il chiaro ing. Sebastiano Cimaz, novalese (Torino – via sant’Anselmo, 20) faceva il 9 gennaio 1955 alla basilica di san Nicola di Bari, per avere la spiegazione sicura di sei affreschi medievali, che esistono nella cappella di sant’Eldrado nella ex abbazia benedettina della Novalesa. Il rev.mo Priore di san Nicola P. Girolamo De Vito O. P., mi passava la lettera dell’ing. Cimaz, ed io compilavo un commento di 19 pagine dattiloscritte, facendo rilevare l’importanza degli affreschi e dando la esatta interpretazione di ogni singola composizione pittorica, sulla base delle migliori fonti storiche e agiografiche. Chiedevo però alcune fotografie, che l’ingegnere spediva con alcuni dati molto utili, a rettifica di alcuni elementi descrittivi della cappella e dell’insieme architettonico della ex-abbazia. Fu così ch’io rifeci il mio lavoro nella forma che oggi si presenta.
Questi affreschi, rappresentanti episodi della biografia e della leggenda di san Nicola di Bari, provengono dalla celebre abbazia della Novalesa in Piemonte e suscitano, come vedremo, il massimo interesse iconografico e artistico. Ma perché siano posti nel giusto rilievo, è necessario, ed è ancora doveroso, inquadrarli entro le vicende storiche della stessa abbazia, ove si impreziosiscono di uno speciale alone di storia e ove si illuminano di peculiare luce nel corso dell’alto Medioevo, entro una delle tante gloriose tappe della vita benedettina. Ed è quanto mai significativo, che la leggenda nicolaiana abbia trovato alla Novalesa l’ospitalità di una figurazione tanto vistosa e propriamente in sei dei suoi più fascinosi aspetti, tra i quali scorgeremo qualche cosa di iconograficamente insolito e raro.
Molto chiara è la descrizione generale, che ne dà Noemi Gabrielli, a pagina 24 della sua ottima opera Pitture Romaniche21. La Gabrielli, competentissima, così ne scrive:
«La chiesetta di sant’El- drado sorge in una posizione incantevole su di un poggio dominante l’imbocco della Valle di Susa, nel recinto del monastero benedettino della Novalesa, e venne eretto, secondo quanto riferisce il Carretto, dal padre Giacomo delle Scale, priore del monastero dal 1229 al 1295. L’interno della cappella ad una navata, è diviso in due campate l’una con volta a botte, l’altra con volta a crociera. Questa diversità di stile fa supporre che la costruzione sia avvenuta in due epoche successive. Gli elementi architettonici dell’abside e della seconda campata presentano le caratteristiche dello stile romanico dell’XI secolo, mentre la prima ha elementi più evoluti che la fanno ritenere dell’inizio del XIII. È probabile che il priore abbia adattato un edificio preesistente, per dedicarlo al suo predecessore. La parete d’ingresso è posteriore, e sembra del periodo barocco. L’interno ha le volte e le pareti ricoperte di pitture romaniche a tempera forte, ad esclusione della parete d’ingresso decorata di brutti dipinti del XVIII sec. È difatti un grande mediocre dipinto settecentesco raffigurante la Risurrezione. Gli affreschi che rappresentano nell’abside Gesù in Maestà, nelle campate storie di
S. Nicola e di S. Eldrado, sono di chiara derivazione bizantina non solo nell’iconografia, ma anche nello stile, e sono di esecuzione assai tarda, attorno alla metà del secolo XIII, e corrispondono alla data di erezione della cappella. Le pitture della Novalesa vennero restaurate nel 1828 dal priore Borsarelli della Rovere per incarico avuto dall’abate benedettino di Cassino, Stefano Chapuis».
Ora la parte che più richiama l’attenzione è l’abside «con coronamenti ad archetti e con tre pseudobifore», e meglio tre monofore con sguancio. La porta della cappella è preceduta da un atrio ad arco unico, «ma è lavoro rifatto». L’ossatura interna della cappella è costituita dalle mezze colonne, che ne sorreggono gli archi. «La chiesa consta di tre parti, di cui l’ultima è l’abside, mentre le altre due – le anteriori – costituiscono la parte essenziale della chiesa». Tutto l’interno, compresa l’abside, misura m 7,10 per m 4,45. L’orientamento è verso Ovest. Il prete, officiando, guarda ad Est. Il diametro dell’abside è di m 2,20, con sporgenza di m 1,70.
«L’abside è unita alla chiesa per mezzo del solito arco trionfale». La parte anteriore della cappella è a crociera, la posteriore a botte; le due parti si allacciano per mezzo di un grande arco. Secondo il Cipolla appare logica l’ipotesi, «che la parte coperta con la volta a botte sia l’originale, e il resto appartenga invece a posteriore ampliamento».
Gli affreschi inerenti alla vita di sant’Eldrado abate sono sei: due sulle pareti e quattro sulla volta, dipinti nella parte coperta a crociera – quelli invece ispirati alla leggenda nicolaiana sono del pari sei nella parte coperta a botte. Nell’abside campeggia entro un triplice tondo (mandorla), leggermentne ellissoidale, la figura di Cristo pantocrator (onnipotente) di fattura prettamente bizantina; carni giallognole, faccia asceticamente serissima, quasi stecchita, occhi socchiusi verso il basso, destra stesa a benedire alla greca, sinistra sopra il libro borchiato della vita, cioè del vangelo, ch’è poggiato sul ginocchio sinistro. Il libro è chiuso, mentre – nota la Gabrielli22 – normalmente è aperto, e anzi essa si richiama giustamente al Molsdorf23.
Il nimbo del Cristo è intersecato a croce equilatera, e i tre rami della croce – il quarto è coperto dalla testa del Cristo – recano ognuno le lettere L / V / X, formanti la parola latina lux. È curioso, che la voce lux, simbolicamente sinonimo della perfezione di Cristo lux mundi – secondo il prologo del vangelo giovanneo – è stata adoperata in funzione di radice etimologica per il toponimo della Novalesa, con un processo ingegnoso: “Novalesa” vorrebbe significare nova lux, quella lux, che su ombre profonde
nerastre appare intorno al capo del Cristo pantocrator, ed è appunto la nova lux del Vangelo, che una leggenda locale pretende, sia stata predicata nella regione, ove sorge la Novalesa, da san Pietro apostolo in persona. Da nova lux si fa derivare l’aggettivo novalucensis, divenuto poi novaliciensis.
Notevole è la tipica distribuzione dei colori, che affiorano in questo primo settore pittorico sopra l’insieme delle ombre nereggianti. La veste del Cristo è “purpurea con lumeggiature bianche”; il suo manto è grigio nelle ombre, turchino nelle luci; il nimbo è arancione; la croce è bianca con sfumature; il cuscino, sul quale il Cristo è assiso, è bianco “con motivi geometrici rossi”; il trono è “rosso a riquadri punteggiati di bianco e di giallo, con l’interno bianco azzurrino”; una stoffa “a losanghe rosse e motivi foglifor mi ricade nella parte inferiore del trono”; i piedi del Pantokrator poggiano su un cuscino grigio azzurrino; «la mandorla è bianca all’esterno, verde nel mezzo e purpurea all’interno, con contorni e stelle bianche». Credo che l’artista bizantineggiante abbia voluto rendere qui pittoricamente il giuoco del cromatismo, che regna sovrano nelle variazioni coloristiche dei musaicisti bizantini.
L’abate Aldradus col baculus
Ritornando alla pretesa predicazione di san Pietro apostolo, giova notare che tale origine “pietrina” dell’evangelizzazione della nova lux cristiana si vuole pretesamente suffragata dal fatto che alla Novalesa esistono, oltre ai ricordi d’arte in onore di san Pietro (vedasi l’arcella argentea, di cui dissi), reliquie volutamente autentiche dell’Apostolo; ma tale autenticità è da scartarsi, in quanto esse saranno certamente “reliquie di contatto”, quelle cioè che son dette “brandea”, consistenti in oggetti vari, specialmente tessili, che si solevano accostare dai pii pellegrini alle vere reliquie, affinché dal contatto questi oggetti assumessero una quasi trasfusione di santità. Perciò tali oggetti, in questa maniera “santificati” erano piamente venerati come reliquie vere e proprie24.
Ai lati del Salvatore si allungano le figure ieratiche dei due arcangeli, che sono i più noti fra i tre della gerarchia: san Michele a sinistra di chi guarda, san Gabriele a destra. Sopra la figura dell’uno si legge S/MICHAEL e sopra la figura dell’altro S/GABRIEL. Ognuno regge un rotolo o cartiglio spiegato. Su quello dell’arcangelo Gabriele lo scritto è scomparso, e si leggono soltanto le parole MVS, in linea orizzontale, e A/X/A … H/S, una lettera sopra l’altra in linea verticale. Sul rotolo dell’arcangelo Michele si legge su sei righe: PARCE DS / POPVLO / (Pro)PRIO / QVE(m) / SANGVINE / MnVP. Il Cipolla osserva:
«L’ultima voce è evidentemente sbagliata … Qui si tratta di un esametro; e sta bene, essendo che qui leggansi altri esametri. Il senso esige che sia una forma verbale; la N sovrapposta, fuori linea, alla V non avvantaggia la soluzione». Il Cipolla giustamente non si pronuncia di più. Nei citati suoi “Inventari del monastero della Novalesa25, egli attribuisce la scritta “Parce” al cartiglio di Gabriele e non di Michele, e forse è giusto, perché la dicitura rivolta al “sanguis”, che, evidentemente, è il sangue di Gesù, si riferisce all’Annunciazione di Maria, operata appunto da quest’arcangelo, la cui celestiale ambasciata si riferiva all’incarnazione di Cristo.
La Gabrielli26, la quale scrive che i due arcangeli «recano stendardi con il monogramma di Gesù», fa un giusto confronto osservando che la stessa composizione della scena con gli arcangeli ai lati, recanti gli stendardi, lo stesso modo di sovraccaricare il trono di motivi geometrici ed ornamentali ed il disegno a intreccio negli sguanci delle finestre, si ritrovano negli affreschi dell’abside della chiesa di santa Maria di Aneu, ora nel Museo di Barcellona, della fine del XII secolo” e cita S. Folch y Torres, Museo de la Ciudadela27.
Nell’intenzione dell’artista, i due arcangeli rappresentano l’universale vittoria di Dio: con Michele la vittoria sulle forze delle tenebre e del male, coalizzate contro Dio e realizzate nella rivolta di Lucifero: con Gabriele, nunzio dell’Incarnazione di Gesù alla Vergine Maria, la vittoria sulle mortali conseguenze del peccato originale, e quindi la salvazione del genere umano per mezzo dell’opera redentrice del Cristo lux.
Sotto il Cristo, ai lati d’una monofora centrale, sono effigiati due Santi, ritti in piedi, in adorazione: a sinistra san Nicola, dalla bella barba bianca e dai candidi capelli, in camice e piviale (casula) azzurro, di taglio bizantino, pallio bianco, dalmatica gialla, e tunica bianca; tiene nella sinistra il libro della Sacra Scrittura – o messale? – chiuso, e tende la destra verso l’altra figura, cioè verso sant’Eldrado. La scritta, all’altezza della testa, dice: S / NIChOLAVS. A destra si profila la figura di sant’Eldrado in to- naca monacale color marrone violaceo: ha la barba corta e tiene anch’egli con la sinistra il libro chiuso. All’altezza della cintola la scritta con il suo nome S / ALDRADVs / ABB. NOVAL. – Tanto san Nicola, quanto sant’Eldrado accennano di conserta alla figu- ra campeggiante del Cristo.
Se sant’Eldrado simboleggia la santità esercitata in loco, cioè nella stessa abbazia, san Nicola raffigura la santità esercitata in tutta la chiesa militante, ed è molto significativo, che a tale simbolo altissimo sia stata elevata l’effigie di quel Santo orientale, che la traslazione barese del maggio 1087 ha mutato in occiden- tale inaugurando al contempo una novella fase del culto nicolaiano tanto per l’Oriente, ormai oblivioso, quanto per l’Occidente, dove il culto del Santo di Bari prendeva un avvio energicamente nuovo.
Come osserva la Gabrielli28, «il fondo verdastro è tutto ridipinto anche all’interno della mandorla; interamente ridipinto ad olio sono gli arcangeli Michele e Gabriele e le figure dei due devoti inginocchiati ai piedi dei santi Nicola ed Eldrado». E ancora: «le tre monofore hanno cornici purpuree e nell’interno motivi geometrici bianchi e rossi e girali rossi su fondo bianco”» (tav. XXII, 51).
Nel centro degli affreschi nicolaiani è effigiato l’Agnello di Dio, cioè Cristo (L’agnus Dei, qui tollit peccata mundi) entro il cerchio mediano turchino d’una croce greca equilatera, donde, con i quattro lati un poco divergenti, si dipartono 4 raggi cruciformi recanti ognuno un disco.
Al centro dei due raggi verticali spiccano due medaglioni con le figure di due angeli a mezzo busto. Nei raggi orizzontali sono contrapposti altri due dischi purpurei29. Fra i quattro dischi e le parti varie del corpo dell’Agnello sono scritti i nomi dei quattro punti cardinali, dei quali l’onomastica è greca, e la scrittura è latina. Fra il disco superiore e la croce, che si leva alle spalle dell’Agnello, si legge: D / I / SIS; al lato sinistro, tra il disco e la testa dell’Agnello: A / R / C / TOS; a destra, fra il disco e la parte postica del corpo dell’Agnello: M / I / S / I / M / BRIA; e sotto, fra il disco e le gambe dell’Agnello: A/ N / A / TOLE. “Disis”, greco dÚsij, indica il tramonto, l’Occidente, il Ponente, l’Ovest; “arctos”, greco ¥rktoj, è il settentrione (latino arctos, arctus) il Nord; misimbria (con la pronuncia e la scrittura “i” per l’eta nel mezzo della parola), greco meshmbr…a, è mezzodì, mezzogiorno, il Sud; anatole, greco ¢natol», è il sorgere del sole, l’Oriente, il Levante, l’Est (in latino anatolicus di Teo- doro Prisciano significa “orientale”). Il simbolismo è chiaro, in quanto vuol significare che la lux e la redemptio del Cristo hanno avuto valore di diffusione e di salvazione in tutta la terra, entro tutte le parti terrestri, rappresentate dai quattro punti cardinali.
C’è del simbolismo nell’insieme di queste raffigurazioni. Scrive la Gabrielli: « Il circolo nel mezzo rappresenta l’universo, da cui si dipartono i quattro punti cardinali, indicati come le braccia della Croce e con i nomi greci, perché l’iniziale di ciascun nome serve a formare il nome di ADA». Difatti si ricavano la A di “Anatole”; la D di Dysis; la A di Arctos e la M di mesembria, onde si desume il nome di “Adamo”, il primo uomo, rappresentante dell’intera umanità, di per sé peccatrice (peccato originale) e redenta da Cristo. C’è dunque l’orbe intero e l’umanità intera, e in questa amplissima allegoria «l’Agnello Divino – nota ancora la Gabrielli – simboleggia Gesù, che a mezzo degli Evangelisti, di cui rimangono i due tondi, diffonde la sua dottrina nel mondo». E pur qui è citato W. Molsdorf30.
Gli affreschi nicolaiani alla Novalesa
Ora è sulle sei figurazioni nicolaiane, che si rivolge la nostra particolare attenzione, al fine di sviscerarne il significato storico e simbolico dei singoli riquadri31, e insieme rilevarne il valore artistico. Karl Meisen pubblicava nel 1931 la sua splendida opera “Nikolauskult und Nikolausbrauch im Abendlande32, che citerò parecchie volte, ma mentre parla diffusamente delle documentazioni forlkloristiche, storiche, artistiche riguardanti il culto di san Nicola in tutto l’Occidente, non nomina affatto gli affreschi della Novalesa per cui ritengo che tanto più opportuno, e anche necessario, sia questo mio lavoro, che nel suo intento va a colmare una lacuna.
In primo luogo forse si affaccia la domanda, perché mai tali affreschi, denotanti una devozione duecentesca così sentita, si mostrino in un sito della Val di Susa, lontano dal mare, visto che propriamente nelle località a mare il culto di san Nicola fu particolarmente vivo, dato che il Santo è stato peculiarmente invocato come patrono della navigazione e della marineria, del commercio di mare e dal ceto navigatorio, fino ad essere chiamato “il Poseidone dei cristiani”33. Anzi san Nicola appare alla Novalesa unico fra i Santi del patrimonio agiografico cristiano, insieme ai due arcangeli Michele e Gabriele, e al Santo locale Eldrado, la cui presenza in una “sua” abbazia è più che logica. La spiegazione, come penso, può trovarsi nel fatto, che la devozione novaliciense per il Santo di Bari può considerarsi un riflesso della devozione vivissima e antichissima, nutrita dalla Francia; e con la Francia meridionale l’abbazia della Novalesa ebbe stretti rapporti, se altro non fosse per avervi posseduto ampli terreni, come già detto34. E che la Francia avesse alimentato un culto speciale per san Nicola di Bari, è superbamente provato da cento e cento documentazioni35.
Il chiaro ing. Cimaz mi fa opportunamente notare, che Giacomo delle Scale, priore del monastero novaliciense, al quale si deve l’erezione della cappella di sant’Eldrado nel 1240, era patrizio savoiardo. E anche sant’Eldrado, fattosi monaco alla Novalesa circa il 782, era del pari savoiardo. Lo si disse nato a Lambese in Provenza (Bouches du Rhône), ma il Cipolla propende per Ambel, diocesi di Gap, Dipartimento dell’Isère (Savoia), circostanza che mi viene confermata dall’ing. Cimaz con lettera del 2 ottobre 1955, ove mi dice, che di tale opinione è pure l’ab. Jean Noiret, curato di Corps in quel Dipartimento e in quella medesima diocesi savoiarda. Siamo sempre in parte della Francia assai vicina all’Italia, dalla quale terra poté così più agevolmente passare il culto nicolaiano, molto vivo in Italia, perché importatovi dall’Oriente bizantino secoli prima della traslazione di Bari. Comunque – secondo le informazioni cortesemente favoritemi dallo stesso ing. Cimaz, innamorato delle memorie della sua No- valesa – sulla strada del Moncenisio, versante italiano, c’è un tratto piano intitolato ab immemorabili a san Nicola. A Borgone,
a circa 15 km da Novalesa, verso Torino, la chiesa parrocchiale è del pari dedicata a san Nicola.
D’altro canto l’attestazione nicolaiana della Novalesa poté ben essere una risultanza della ormai raggiunta internazionalità del culto di san Nicola di Bari, che già san Pier Damiani (1007-1072) esaltava con quel bell’inciso oratorio: «Hic est Nicolaus, cujus miracula per totam mundi latitudinem diffunduntur, quem laudat orbis terrae et qui habitant in eo. Tot enim et tanta miracula cumulantur, ut omnes litteratorum argutiae vix ad scribendum sufficiant, nos ad legendum».
Alla luce di questa frase può ben sembrare ovvio, che nel Duecento monaci e pittori benedettini anche nel Piemonte, e propriamente nel monastero benedettino della Novalesa, sentissero una particolare venerazione verso il Santo taumaturgico Nicola e ne dessero espressione tangibile con questi affreschi. E poi anche la grande basilica nicolaiana di Bari era di origine classicamente benedettina36, e quindi il culto nicolaiano barese, divenuto internazionale per merito di Bari, costituiva una tradizione benedettina, alla quale la Novalesa bene- dettina si conformava.
E passo agli affreschi37.
La dea Diana e l’olio diabolico
L’affresco è movimentato. Due navicelle sono leggermente affiancate, in modo che la prua della navicella di destra copre la poppa di quella di sinistra. Questa sola ha una vela. Sulla nave di destra appaiono due teste femminili alate, che soffiano con violenza sulla vela della nave di sinistra. A bordo della nave di destra si vedono due figure: un uomo con il remo e una donna con un vasetto nella mano sinistra. Ambo le braccia sono protese verso san Nicola. Nella barca di sinistra vi sono del pari due figure, ma entrambe maschili: l’uno è in abito da pellegrino, e si rivolge verso la donna della barca di destra, l’altro con la mano sinistra versa l’olio diabolico in mare, che si vede tutto ribollire, come per un improvviso incendio. La barca ha tre remi liberi, abbandonati ai bordi.
Come ben nota la Gabrielli38, tutte le singole azioni delle figure sono riunite in un unico quadro: la consegna dell’olio ai pellegrini da parte della dea e l’apparizione ammonitrice del Santo.
Cappella di S. Eldrado (sec. XI) San Nicola debella il culto degli dei
Utilissima la descrizione che la Gabrielli fa dell’insieme del quadro, specialmente in merito all’elemento cromatico.
«Sul fondo grigio-azzurrino sono dipinte due imbarcazioni, a destra una più piccola di colore arancione, recante un vecchio nocchiero in veste bianco-verdina e la stessa dea Diana, che, velata di giallo e con abito azzurrino, porge la boccetta dell’olio a un giovane in manto marrone, tunica giallina e berretto bianco a puntini turchini, dritto sull’altra navicella più grande, munita di albero con sartiame e vela. Su questa stessa imbarcazione un uomo con barba e capelli castani, versa in mare il liquido della boccetta, obbedendo all’ammonimento del Santo (S NICOLAVS), che in miracolosa apparizione è dipinto a sinistra, dritto in piedi, in abito vescovile e benedicente. In alto, a destra, soffiano i venti”. Le figure, osserva la Gabrielli, «sono discretamente conservate. La figura di san Nicola è ridipinta. Il fondo è in parte restaurato. Molto corrosa è la parte della pittura in basso».
È questo un episodio nicolaiano, imperniato nella leggenda della lotta del Santo contro il diavolo39, che prende forme e nomi diversi: Satana, Belthzebub, Düvel, Ortygia, Artemis, Diana; lo ta che il Santo vince sempre con uno dei suoi thaumata, cioè con qualche suo prodigio.
Qui il demonio è la dea Diana, il cui tempio il Santo ha fatto demolire e della quale aveva fatto tagliare in Egitto l’alloro sacro, onde la dea si vendica, tentando di far incendiare la tomba e il tempio del Santo con un olio diabolico, ove secondo una pia costumanza si fossero unte le pareti, che fa credere olio puro da offrire al Santo ai semplici pellegrini, ma che versato per ispirazione del Taumaturgo in mare, arde, svelando la sua diabolica origine e la satanica intenzione di Diana. Ne dissero la celebre Vita greca di san Nicola del secolo IX, Giovanni Diacono che la rielaborò nell’880, Roberto Wace nel suo poema nicolaiano del secolo IX e molti degli inni medievali. L’inno del secolo X di Montecassino40 canta così:
Insciis fraudes miserans Dianae
prodidit, monstrans nova monstra nautis: arsit iniecto quoniam profundum
aequor olivo.
L’episodio colpì l’immaginazione degli artisti. In Francia esso fu ritratto molte volte nelle vetrate del secolo XIII. Vedasi la fine- stra absidale nella cattedrale di Tours in ben 16 reparti41. Vedasi poi della pianeta ricamata tedesca ricordata dal Meisen42, con la scritta hos sub spe vana / vult ledere seva Diana. Nel Museo di Ulm, Sebastiano Dagy dipinse il fatto di Diana: si vede il Santo muovere in barchetta verso la nave infestata dal tentativo incen- diario di Diana. La citata pianeta del monastero di san Biagio, ora al Museo di Vienna, mette in guardia contro l’olio diabolico con il versetto rimato: Spurgitia plenum / nolite timere venenum, perché – vuol dire – c’è san Nicola che vigila e vi protegge.
Per meglio comprendere il significato dell’affresco della Novalesa, serve benissimo la narrazione che si legge nella tanto deliziosa Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, secondo il volgarizzamento inedito del Codice Panciatichiano XXXVIII della Biblioteca Nazionale di Firenze, carte 135 ss., pubblicato da Guido Battelli43. Va premesso, che – e lo ripeto – san Nicola a Pàtara sua patria e a Mira, sua sede arcivescovile, combatté vivacemente il culto di Diana efesina, che perdurava ancora nel secolo IV d. C., come riferisce il capitolo VI del volgarizzamento dal titolo «Come santo Niccolò spense il culto di Diana idolo pessimo»44.
“Era quella provincia donde santo Niccolò era vescovo, molto viziata d’adorare idoli, che non vi si potea spegnere, tanto v’erano divoti; e massimamente avevano grande riverenza e fede a uno idolo chiamato Diana, che fu una pessima femmina, ma quegli paesani, infino al tempo di santo Niccolò, le faceano sacrificio e reverenza sotto un albero conservato ad onore del predetto idolo. Li quali modi e sacrifici santo Niccolò al tutto spense, e fece tagliare quello albero. L’azione epuratrice cristiana antiartemidea del Santo si svolge in Licia d’Asia Minore non ad Alessandria d’Egitto, come scrive la Gabrielli45 (p. 26). «Della quale cosa lo diavolo indegnò forte contro a santo Niccolò, onde fece uno olio tanto lavorato per sì fatto modo, che dov’egli era posto, o d’esso qualunque cosa ne fosse unta, o pietra, o acqua, o ferro, o terra, ardea come paglia, e chiamavasi il detto olio mediano. E ‘l detto demonio, prese forma d’una donna religiosa, e fecesi incontro a certi ch’andavano per mare a santo Niccolò, e parlando loro disse: – Io vi prego che voi mi facciate uno servizio per amore di santo Nic- colò, il quale voi andate a visitare (chè io vi sarei venuta con voi, ma per alcuna cagione non posso), ma per amore vi prego che portiate questo olio alla sua chiesa, e a mio nome ne ugnete le sue mura in reverentia di lui. – E quegli, togliendo il predetto olio, e promettendo di ciò fare, andarono al loro viaggio. E andando, vidono venire contro a loro una navicella carica di persone, tra lo quali vidono uno simile a santo Niccolò, il quale loro disse: – Buoni figliuoli, ditemi che vi disse quella femina e che vi diede. – Li quali gli dissono ogni cosa per ordine. Ed egli disse loro: – Quella si fu la pessima diavola Diana d’inferno. Acciô che veggiate ch’io dico vero, gettate quello olio in mare e vedrete la sua retà. – Ed eglino ciò fecero subito. Gittato l’olio in mare, accese un fuoco, e ardea l’acqua come stipa. Veduto ciò, disparve santo Niccolò, ed eglino seguendo il loro viaggio e giugnendo a santo Niccolò, gli dissono ciò che era loro addivenuto, e con lui laudarono Iddio».
Il fatto, com’è narrato nella Legenda Aurea e negli altri testi da me citati, greci e latini, accadde quando il Santo era ancora in vita e la chiesa da distruggere con l’olio “mediano” o “mediaco”, cioè con il petrolio persiano – del quale fa cenno anche Marco Polo46 – era quella di Mira. I pellegrini dunque sono greci dell’Ellade, secondo altri latini d’Occidente. Ma più tardi l’olio incendiario, secondo altri codici agiografici, è destinato a distruggere la tomba del Santo a Bari; sono pertanto testi posteriori al 1087, anno della traslazione delle reliquie nicolaiane da Mira a Bari. Così mutano l’episodio le leggende medievali occidentali. Secondo un racconto barese del secolo XIII – e al massimo del XIV47 – è il demonio in persona che dà la boccia d’olio infernale ai marinai. Secondo il racconto di Jacopo da Varazze il demonio si trasforma in monaca (femina religiosa). Nell’affresco della Novalesa è posta in azione Diana medesima, la quale anzi appare in atto di soffiare sulla vela della nave, e le figure femminili in tale sforzo nemico sono duplicate. L’affresco quindi porta in campo un motivo iconografico nuovo. Anche qui però, come nelle altre stesure della leggenda è il Santo a intervenire per sventare l’insidia diabolica, facendo gettare in mare l’olio, affinché dall’esito appaia la “retà”, cioè la realtà della malvagità del demonio.
L’insieme di questo affresco è drammaticamente e icastica- mente realistico.
Il Santo salva tre cavalieri innocenti
L’affresco nel suo primiero intento è molto bello ed efficace, ma l’icastica semplicità, ond’è avvivato, è contaminata dal fatto ch’è stato ridipinto, e perciò la Gabrielli non ne parla. Interrogata dall’ing. Cimaz, la dotta scrittrice spiegò il suo silenzio appunto con la circostanza, che l’intero affresco venne a suo tempo completamente rifatto nel restauro del 1828, quello che il Cipolla giustamente definisce “infelice”. Per questo motivo l’affresco non ha più il suo valore di “pittura romanica”, e quindi non interessava la dotta e acuta scrittrice. Comunque io ne dò la descrizione, come di dovere. A destra appaiono tre uomini bendati, uno dei quali è prostrato in atto di implorare grazia, il secondo è curvo, del pari in atto d’implorazione, il terzo è in piedi, ma evidentemente atterrito. Nel mezzo è il carnefice, che impugna e alza con la destra la spada, con la quale dovrebbe decapitare i tre infelici. Ma a sinistra appare alto e imponente san Nicola, in abito vescovile con camice, piviale, stola e pallio, in atto di afferrare la spada del carnefice e impedirgli di eseguire il supplizio dei tre. Nel cielo, sopra la testa del Santo sta la scritta S. / NICHOLAVS, con le lettere CH e AV in nesso.
È la leggenda chiamata Praxis de stratelatis divulgata sotto Giustiniano. “Stratelatus” o “stratelates” è detto un generale d’esercito: exercituum dux o militiae dux dice il Du Cange48. La leggenda dei tre innocenti49, la si legge nei Martirologi di Rabano Mauro (840-854) e di Usuardo (859-875), che dà questo giudizio: inter plura miraculorum insignia memorabile, nella Vita di Giovanni Diacono (di circa l’880), in molti inni medievali dei secoli IX e X50, in preziosi codici, quali il XXXII di Reichenau (che è anteriore all’842), il palatino (dell’846), il carnotensis 506 (del sec. XII), nel citato poema St. Nicholaus di Roberto Wace (se. XII), nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (del sec. XIII). Notevole poi in modo speciale il lungo racconto nel codice au- giensis XXXII, di cui vedi il Meisen, pp. 220-222.
Riporto dal citato volgarizzamento del Codice Panciatichiano51, Come liberò da morte tre cavalieri, in cui il Santo per compiere l’opera di salvazione, si avvale di un editto dell’imperatore Costantino il Grande, che dava ai vescovi la facoltà di rendere nulli i giudizi dei consoli, quando tali giudizi fossero contrari a giusti- zia. Narra dunque il volgarizzamento52: «Per certa cagione essendo andato santo Niccolò in certo luogo, il consolo che signoreggiava in quella terra, essendo corrotto per moneta, tre cavalieri di quella terra, per operazione di loro nemici falsamente accusati, il detto consolo li giudicò che subito fosse loro mozzata la testa e menati al luogo della giustizia. In quella santo Niccolò tornando, fugli detto per alcuno padre: – Una grande ingiustizia è fatta, la quale, se voi ci foste stato, non l’avreste lasciata fare, di tali tre cavalieri di questa terra, che ‘l consolo ingiustamente gli ha mandati a dicollare. – Santo Niccolò dimandando s’erano dicollati, fugli detto com’erano andati alla giustizia. Di che santo Niccolò subito vi corse, e pregò i predetti tre baroni romani (cioè Nepoziano, Orso e Arpillone, ch’e- rano stati mandati dall’imperatore Costantino a pacificare certe genti ribelli dell’Asia Minore) che andassero con lui. E giugnendo, quelli tre cavalieri erano già ginocchione con gli occhi fasciati e lo giustiziere già aveva levato alto lo colpo della spada per dare. Allora il beato Niccolò, acceso d’un fervente zelo, si gittò addosso al giustiziere e levogli la spada di mano, e poi sciolse coloro, e sì gliene menò seco, et andossene al detto consolo ed entrogli in casa, essendo le porte serrate. E ‘l consolo gli si fece incontro, facendogli reverenza e salutandolo. Lo quale santo Niccolò dispregiò, ma dis- segli; – O inimico di Dio, e trapassatore della legge, come fosti tu ardito di guardare nella mia faccia? – E fortemente lo riprese della ingiustizia ch’avea commessa contra quegli innocenti cavalieri. E quegli tre barchi romani il pregarono che gli perdonasse e riceves- se a misericordia, e così fece.
Anche questo racconto diventa il migliore interprete dell’affresco novaliciense, e nega valore a ogni altra spiegazione che ne venisse data53.
Si può anche aggiungere che i tre romani Nepoziano, Orso e Arpillone, sopra menzionati, vennero, secondo altra leggenda, ingiustamente accusati e condannati dall’imperatore Costantino e anche essi salvati dal Santo54.
Questo affresco della Novalesa si inserisce in tutta una lunga serie iconografica, di cui parla il Meisen55 (pp. 223-232). Tolgo dal chiaro Autore quanto si riferisce ad alcune di queste figurazioni del medesimo episodio della leggenda nicolaiana, cui s’è ispirato il pittore bizantineggiante della Novalesa:
– manoscritto Meditationes et Origines di sant’Anselmo di Cantuaria 56 della metà del sec. XII, nel chiostro benedettino di Admont in Stiria;
– manoscritto57 del secolo XII nell’abbazia benedettina di Lam- bach in Austria, ora a Berlino;
– manoscritto del libro corale del sec. XII nel chiostro di Zwiefalten nella Biblioteca Provinciale di Stuttgart58;
– casula59 ricamata del sec. XIII nel chiostro di san Biagio, ora nella collezione artistico-storica di Vienna;
– la volta della metà del sec. XIII nella cappella della chiesa di santa Maria Lyskirche in Colonia60;
– miniatura su scultura lignea61 del sec. XIV nel Museo Diocesano di Colonia;
– pianeta ricamata62 di Anagni del sec. XIII, in 6 ovali della parte inferiore;
– vetrata di Bourges63;
– i dipinti del Giottino64 nella chiesa inferiore di Assisi, di Lorenzo di Niccolò65 nella Pinacoteca Vaticana, quadro assai movimentato, del Beato Angelico66 nella Pinacoteca di Perugia, di Francesco Pesellino67 nella Galleria Buonarroti a Firenze, con molte figure di contorno;
– di Benedetto Bonfigli68 nella Pinacoteca Vannucci a Perugia. Di fronte a tutte queste figurazioni di dipinti, di ricami e di miniature, l’affresco romanico della Novalesa si piazzava assai significativamente.
San Nicola bambino digiuna
L’affresco è volto verso l’abside, come riferisce il Gabrielli69. V’è ritratto un ambiente familiare.
A destra una donna, dai capelli rossi – la madre – in abito bianco ad ombre verdi, è seduta su un tronetto ornato di borchie e ombreggiato d’azzurro. Essa tiene sulle ginocchia un bambino, verso il quale si piega per porgergli a mammella, che il piccolo disdegna, onde la madre china il capo in atto di desolato stupore. Nel mezzo della camera, ai piedi del tronetto, sopra un panchetto basso bianco, o meglio su di un gradino bianco, è poggiato un cestello di vimini con entro un grosso gomitolo di lana; a sinistra, con falsa prospettiva, è collocato un lettino vuoto di color arancione con lenzuolo bianco e una coperta di color marrone oscuro. Sopra la madre sta la scritta MATER all’altezza del capo del bambino, ch’è avvolto in fasce rosee gialline, si legge la scritta NICHOLAVS. La scena è caratterizzata da questa iscrizione metrica in caratteri quasi gotici sviluppantesi sul fianco dell’arco della volta: ABSTINET HIC LACTE DNI VIRTVTE REFECTVS + MIRATVR MATER GENITV NON SVMERE
MAMES, ove è scritto mammes per mammas: «si astiene questi dal latte, rifocillato dalla virtù del Signore + stupisce la madre, che il figlio non prenda le poppe». Sono due esametri latini prosodicamente esatti e in buona lingua: abstinet hic lacte Domini virtute refectus miratur mater genitum non sumere mammas.
L’affresco della Novalesa si ispira ai passi d’una celebre predica di san Pietro Damiani (1007-1072), in cui il bambino Nicola è detto electus ab utero e lo si ricorda come puerum ieiunantem, nel qual particolare san Pier Damiani fu preceduto da Nicolaus di Clairvaux, segretario di san Bernardo70. In un inno del sec. XII è detto di san Nicola bambino: puer carnem domuit71.
Nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, capitolo I: “Qui comincia la leggenda del glorioso vescovo messere santo Niccolò”72, dopo di aver nominato il padre del Santo, chiamato Epifanio, e la madre, chiamata Giovanna, si dice: «questo loro figliuolo, il primo dì che fu bagnato, istette per sé medesimo ritto nel bacino; e due dì della settimana, cioè il mercoledì e il venerdì, non prendeva il suo cibo del latte materno, se non una volta il die».
Una leggenda biografica del Santo, in dialetto pugliese mette in viva mostra questo particolare, che riguarda l’infanzia di san Nicola dicendo:
La mamme u mette al petto p’allattà, Necole u llatte nan velì assaggià,
ca jere venerdì e deggenave.
O marcledì o venerdì nan dave udienze a nessune, e la menne faceve deggiune.
La carità alle tre fanciulle da marito a Patara
La parte centrale dell’affresco73 è inquadrata fra due mura di città: a destra, in prospettiva dovrebbe frapporsi una certa distanza, si scorgono gli inizi delle mura di Mira in Licia, perché su una specie di arcata, poggiata a destra contro una torre, a sinistra contro la porta e le mura, si legge, con lettere disposte verticalmente una sull’altra, il toponimo MIRREA; a sinistra, in primo piano, sul vano di altra porta, egualmente con lettere disposte una sull’altra in linea verticale, si legge l’altro toponimo PATERA CIVITAS. Qui le mura sono vicinissime e mostrano che la stanza centrale fa parte della stessa città di Patara, patria di san Nicola. Nella stanza entro un grande cesto di vimini, a guisa di letto, dor- mono due delle tre ormai proverbiali sorelle: vuol dire che una ha potuto già maritarsi, mercé la dote largitale dal Santo. L’una delle fanciulle è in veste arancione, l’altra in veste turchina: entrambe sono coperte da un drappo azzurro, con orlatura rossa. Presso quel cesto-letto, a sinistra, è seduto il padre delle zitelle, anziano, avvolto in un mantello rosa, tutto ridipinto. Egli guarda sconsolato le figlie e mostra viva preoccupazione, spiando la misteriosa venuta del benefattore ancora ignoto. Nella linea del capo gli si svolge l’iscrizione PATER PVELLARV. A destra appare NICHOLAVS di aspetto giovanile, perché non è ancora prete e tanto meno vescovo. Veste un abito bianco, calato sui capelli rossi. Si avanza, tenendo in mano una borsa, che attraverso una finestra egli getta con la destra nella stanza, mentre nella mano sinistra ne tiene un’altra, egualmente piena d’oro. Nella fascia circolare sottostante c’è un’iscrizione, che probabilmente era metrica al pari di quella che vedemmo, ma danneggiata fortemente. Vi si possono leggere solamente queste parole: … CEDE NEFTAS
… A … P … OREM.
Si tratta dell’episodio notissimo74, di cui parlano i biografi greci del Santo, quali Michele, fra l’814 e l’842; Simone Logotheta, detto Metafraste, cioè il traduttore, 961-964; Methodius ad Theodorum, di prima del 943, tutti in Oriente; e in Occidente i moltissimi e veramente preziosi codici latini, quali, ad esempio, la pergamena carolingia del sec. IX, il codice cassinese 506 del secolo X, Alfano di Montecassino, morto nel 1086, senza contare i molti inni medievali. Uno della Biblioteca Nazionale di Parigi, n. 1139, è ingegnosamente monorimo: decet ipsum precari – et ultra venerari – qui nata(s) lupanari – jam data(s) recreari – fecit eisque dari – auri pondus preclari – sic patrem consolari
– volens et asservari75. Si aggiungano le diverse scene drammati- che76 ed anche il patronato nicolaiano per le figlie da marito. Nel folklore di Normandia si prega: «Saint Nicolas, marie les filles avec les garçons!». E in Provenza le fanciulle dicono: «Patron des filles, saint Nikolas, mariez-nous, ne tardez pas».
San Nicola provvede per la dote a tre fanciulle
A commento di tale affresco della Novalesa, riporto quanto narra il più volte mentovato volgarizzamento nel capitolo II “Come sovvenne un suo vicino”: «In quel tempo era uno suo vicino, assai gentile uomo, venuto in grande povertade, intanto che tre sue figliuole vergini ch’egli aveva, s’era disposto di metterle al servigio degli uomini, e di quello guadagno notricare sé e loro. La quale cosa sentendo Niccolò, si ebbe una grande malinconia, onde si puose in cuore di riparare a tanto male. Onde prese del suo uno pezzo d’oro, e sì lo legò in un panno e segretamente di nottetempo per una finestra lo gittò in casa del predetto uomo, e trovando il detto oro, ringraziò molto Iddio, e incontanente sì ne maritò la prima maggiore sua figliuola». Qui va notato, come l’affrescatore della Novalesa abbia dipinto il suo riquadro, partendo dal primo sposazione che allietò la casa del pover’uomo, perché nella sua opera mise due sorelle e non tre. Il volgarizzamento continua: «E dopo poco tempo, Niccolò, sentendo come il buon uomo non aveva da maritare l’altra senza il suo aiuto, andò e per lo predetto modo gli gittò in casa altrettanto oro. Di che il padre, trovando il detto oro, molto ringraziò Iddio, e sì ne maritò la sua seconda figliuola. E disiderando di sapere chi fosse quegli che gli aveva fatta quella così bella e grande limosina, avvisò che per la terza figliuola gli facesse il simigliante, onde si mise a stare alla guardia per vedere chi fosse. Onde Niccolò da indi a poco tolse simigliantemente due tanti d’oro e si andò per lo predetto modo a gittarglieli in casa di notte. Il buon uomo sentendo il busso, chè
stava alla guardia, corse dietro a Niccolò, il quale fuggiva molto ratto, e correndogli dietro disse: – O amico di Dio, aspettami – e così giungendolo, conobbe che egli era Niccolò, e subito, gittandosi in terra, gli voleva basciare gli piedi, ma Niccolò non sola- mente che si lasciasse toccare, ma egli si fece promettere che mai nollo manifesterebbe infino ch’egli vivesse»77.
È dunque il commovente atto di generosità, che il Santo compì a favore d’un padre patrizio decaduto, il quale, non potendo dare una dote alle tre figlie e maritarle onestamente, e d’altro canto non sapendo come sfamare sé e loro, aveva pensato di mettere le tre fanciulle in un lupanare, sfruttando la loro bellezza, e con il guadagno del meretricio vivere tutti e quattro. E san Nicola con le quote d’oro – onde tra i suoi simboli iconografici sono le tre consuete palle d’oro – salva l’onore e la pudicizia delle tre ra- gazze dal disonore e procura i mezzi dotali, perché esse passino a oneste nozze. Perciò a Bari tanto per il 6 dicembre, quanto per le feste patronali di maggio si distribuiscono a un dato numero di buone fanciulle da marito sorteggiate i cosiddetti “maritaggi”, cioè generosi importi, perché servano loro da dote. Così a Malta e in alcune chiese di Roma. Nell’affresco della Novalesa s’inquadra la notissima terzina di Dante78:
Esso parlava ancor della larghezza, che fece Nicolao alle pulzelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.
Il fatto entrò anche nelle laude italiane del Due, del Tre e del Quattrocento. Una delle Laude di sancto Niccolò di Lytia detto sancto Niccolò di Bari fiorentine, raccolte da Francesco Carabellese79:
Et morti suo’ parenti
tutto ‘l suo patrimon vols’a Dio dare: in que’ tempi occorrenti
un gentiluom si volse disperare et tre figliuole pensò far peccare per carestia del pane
et stava com’un cane – in tal tristitia.
Ma questa sancta stella
tre volte andò di nocte a casa loro, et per la finestrella
gictò tre palle di gran peso d’oro, et liberate per cotal tesoro
furon le tre pulzelle,
et maritarsi quelle – in pudicitia.
Una bella lauda duecentesca pugliese, da me raccolta, vuole che il Santo procuri alle tre ragazze non soltanto le tre borse o palle d’oro, ma anche un bel corredo, onde il laudese fa bello sfoggio di stoffe80.
Le varie arti del disegno hanno profuso tutta una dovizia iconografica su questo episodio. Seguendo le illustrazioni del Meisen, ricorderò alcune di queste figurazioni: il libro di preghiera81 di Giovanna I di Napoli, della metà del sec. XIV, ora al Museo di Stato di Vienna; il Breviarium secundum regulam sancti Benedicti82 della metà del sec. XV, bellissimo, ora alla Laurenziana di Firenze, mss. dei conventi soppressi, 457, già Vallombrosa83; disegno84 del sec. XIV nella chiesa parrocchiale di Linz am Rhein;
vetrate85 nelle cattedrali di Tours, di Bourges, di Auxerre, di Saint-Julien-du-Sault nel dipartimento d’Yonne, nella vetrata detta “Tullenhauptfenster” nel monastero di Friburgo in Brisgovia; le sculture medievali86, quella in pietra nel timpano del portale orientale della cattedrale di Chartres, quella in legno del sec. XIV nel Museo arcivescovile di Colonia in Germania; quella in pietra87 del bacino battesimale romanico del sec. XII nella chiesa di Zedelghem presso Brügge, la figura88 destra in chiesa di Karris sull’Oesel. Si aggiungano poi i vari pittori, che effigiarono l’episodio delle tre fanciulle: Ambrogio Lorenzetti89, Angiolo Gaddi90 e scolari, Francesco Pesellino91, fra Angelico92, Lorenzo di Bicci93, Lorenzo di Pietro, detto “il Vecchiotto”94, Otto van Veen95, quadro bellissimo, Sebastiano Dagy96, e due quadri della Scuola dell’Al- tichieri97 e della Scuola di Gentile da Fabriano98. Una stampa di Chulfio Kartaro s’intitola “La carità di san Nicola”.
In mezzo a tanta e tanta svariata messe iconografica, l’affresco della Novalesa spicca per fattura tutta singolare.
San Nicola è acclamato vescovo
L’affresco può dividersi in due riparti: a destra s’intravvede una chiesa con un ciborio a cupola con due colonne e appesa una lampada sotto la prima volta, una croce sotto l’altra. Accanto stanno due vescovi senza mitra, dei quali uno dorme, l’altro riposa, ma guarda verso il muro di cinta dove s’apre un portale ad arco. Sulle due figure umane la scritta PONTIFICE / S, con la S finale sotto la E finale della sillaba “ce”. A destra un vescovo dai capelli bianchi e bianca la barba, vestito di bianco, casula violacea e dalmatica verde su camice giallino. Egli tare seco, tenendolo per il polso destro con la destra e alle spalle, il giovane Santo vestito di abito bianco-azzurrino, sta la scritta NICHOLAV / S, in cui la S finale è tracciata sotto la V della sillaba “lav”.
La Gabrielli99 dà un’interessante descrizione, specialmente in riguardo alle tinte della composizione pittorica. «Di fronte al riquadro di Nicola bambino, sono dipinte due scene della designazione di san Nicola a vescovo. A destra si innalza una chiesa, davanti alla cui porta sta un vescovo dai capelli e barba bianchi, con pallio bianco e casula violacea, dalmatica verde e camice giallino, che prende per il polso e sulla spalla san Nicola (NICHOLAVS), vestito di abito bianco-azzurrino. A sinistra il vescovo in casula azzurra e san Nicola con un abito marrone (PONTIFICES) stanno piegati in atto di adorazione davanti ad un altare che, adorno di un paliotto fulgente d’oro e di grosse gemme e di un velo purpureo, si innalza sotto una edicola sostenuta da colonne verdi, e i cui rossi archi, dai quali pendono una croce e una lampada, sopportano una cupoletta bianca con un giro dipinto di volute ricorrenti. All’angolo sinistro si vede infi- ne la porta della città di Mira (MIRREA CIVI), dove avvennero il miracolo e la consacrazione.
Un’iscrizione mutila e in parte cancellata dice: DMN ROGI- TANT DARE … +OCCVRRIT DICN NICHOLAVUS EX NOMINE DICTUS. Anche nella sua frammentarietà, dove tuttavia è chiaro il secondo emistichio dell’esametro con il suo ultimo dattilo catalettico, il senso fila bene: il popolo, cioè, prega che il Signore ndia un nuovo vescovo meritevole, che “occurrit” nella persona di san Nicola. Il secondo esametro potrebbe sonare così: «Occurrit dignus Nicholaus ex nomine dictus». L’artista ha voluto attenersi fedelmente al racconto della leggenda nicolaiana. Nel capitolo III “Come fu fatto vescovo” del più volte citato volgarizzamento si racconta: «Dopo alquanto tempo, venne caso che morì il vescovo di Mira. Di che, secondo l’usanza, tutti li vescovi di quel paese si radunarono insieme per eleggere un altro vescovo. In fra’ quali ve ne aveva uno di grande autoritade, il quale avea a fare la confermazione dello eletto, ed egli ordinò a que’ vescovi e al popolo che stessono in digiuno e orazioni, acciò che Dio gli ammaestrasse d’eleggere buono e sufficiente pastore».
Ecco infatti che nell’affresco sta la dicitura dominum rogutant dare.
E il testo continua: «E in quella notte udì una voce che gli disse ch’egli stesse la mattina per tempo alla porta della chiesa, e la prima persona che venisse, cioè uno il cui nome è Niccolò, quegli eleggesse e confermasse vescovo. Ond’egli, ciò udito, revelollo agli altri vescovi e ammonigli che stessono in orazione, ed egli starebbe alla porta della chiesa. E così facendo, nell’ora del mattutino, siccome Iddio avea preordinato, Niccolò venne alla chiesa, sì come era sua usanza, e fu il primo che vi giugnesse».
E l’iscrizione condensa il fatto in quel verbo occurrit. Il volgarizzamento conchiude: «E lo vescovo che stava alla guardia, sì lo prese e domandollo com’era il suo nome; e quegli, ch’era come colomba in simplicitade e puritade, rispuose:
– Io sì ho nome Niccolò, servo della vostra santitade.
– Allora lo vescovo lo menò dentro, e mostrollo agli altri vescovi, onde eglino tutti insieme, molto egli contendendo di non volere essere, lo elessono vescovo e puosero in sedia»100.
Nel leggere questo racconto del volgarizzamento della leggenda di Jacopo da Varazze, sembrerebbe che l’affrescatore l’avesse letto attentamente per ispirarsene, tanto è fedele nel suo bizantinismo l’affresco della Novalesa.
Per questo episodio nicolaiano si veda il dipinto di Ambrogio Lorenzetti nella Galleria d’arte antica e moderna a Firenze indicato dal Meisen101, né si trascuri l’altare di Hermann Rode a Reval, nella chiesa di san Nicola.
Apoteosi di san Nicola vescovo
È la scena del solenne insediamento vescovile del Santo102. Un’ampia volta arcata, chiusa ai lati da due edifici, e coperta da un tetto embricato, s’innalza fra la porta d’una cattedrale, a sinistra, e le mura della città di Mira, a destra. A destra è il faldistorio episcopale. Il fondo è verde oliva. San Nicola ha la casula azzurra a fiorellini bianchi, il pallio marrone e una specie di mitra a forma di berretto conico di ermellino, dalmatica gialla, camice azzurro. Sta diritto nel mezzo, con le braccia allargate in segno quasi remissivo di fronte al dovere da assumere con il grado vescovile non cercato e non desiderato. Ha l’aspetto giovanile. Lo affiancano due vescovi in barba, entrambi in casula e con il pallio e in pastorale. Gli tengono le mani per accompagnarlo a destra verso la cattedra episcopale. Il vescovo di sinistra ha capelli e barba neri, e indossa la casula gialla, la veste rosa e in capo ha un berretto bianco: quello di destra, più vecchio, già tutto bianco di capelli e di barba, con casula rosea e dalmatica candida, pallio e pastorale. A sinistra del Santo, all’altezza della testa si legge S / C / S (Sanctus), e a destra N
/ I / C/ H / O / LAVS; eccetto la sillaba “laus”, le altre lettere sono disposte verticalmente. A destra presso al muro, si legge: C / EPI- SCO / P / I, con le lettere P e I disposte verticalmente sotto la O: la scritta spiega che i due prelati, i quali affiancano il Santo, sono vescovi. Il citato capoverso del volgarizzamento panciatichiano dice: “lo elessero vescovo e puosero la sedia»103.
È l’apoteosi del Santo, che diventa il pastore ideale: «pastor del gregge di Dio per divin revelamento”» lo proclama la bella lauda del codice magliabechiano 182, in 9 strofe panegiriche, pubblicata dal Carabellese104.
Il volgarizzamento, più volte citato, nel cap. III così si esprime su san Nicola nuovo vescovo: «E fatto vescovo, Nicolò, così sublimato, quella umiltà e gravezza (cioè austerità) di costumi serbava in tutte le sue cose, come facea anzi che fosse vescovo. E molto stava in orazione, macerando il suo corpo in vigilie e digiuni, fuggendo ogni dimestichezza di femmine. Era umilissimo e con grande benignità riceveva, e conversava con ogni persona, ed era in parlare molto virtudioso e dolce».
La sublimatio del Santo è indicata pure dall’iscrizione che il pittore tracciò nella fascia circolare sotto l’affresco: NICHOLAVS MAGNA POPV VICTORI(a). È la sintesi dell’interpretazione, che si volle dare al nome “nikolaus”, vittoria del popolo, dai sostanti- vi greci “nike”, vittoria, e “làos” popolo, sulla quale combinazione lessicale ed etimologica si sono sbizzarriti gli agiografi, e anche i mistici105.
Carattere bizantino degli affreschi della Novalesa
Stefano Grande chiama la vetusta ex-abbazia della Novalesa, a 828 metri sulla Val di Susa, «grandioso faro di mistica civiltà nel Medio Evo e ora di luce elettrica»106. Alla luce di siffatto mistico faro dovevano attingere ispirazione, tecnica pittorica e originalità anche i sei affreschi, che un pittore anonimo, nella sua arte speciale, affidava ai secoli, come espressione del suo animo devoto. Imprimendoli due sulle pareti (i numeri 1 e 2) e quattro sulla volta a botte ai quattro termini del circolo racchiudente l’Agnus Dei (i numeri 1-4), presentiva egli, che in tal guisa contribuiva ad allargare la grande epopea pittorica, andatasi con i secoli a irraggiarsi intorno alla figura del Santo di Bari? Dice il Battelli, che nelle arti figurative la leggenda di san Nicola ha avuto singolare fortuna107; ebbene, a tale fortuna han dato il loro specialissimo contributo gli affreschi della Novalesa.
È molto istruttivo e convincente quanto ne dice la più volte lodata Gabrielli108, istituendo anche opportuni ed equi confronti. «Stilisticamente – essa scrive – le pitture della Novalesa appartengono al tardo periodo bizantino, di cui mantengono le caratteristiche tinte giallo-olivastre delle carnagioni e l’espressione drammatica delle figure con atteggiamenti concitati e violenti. Il loro stile si può ricollegare quindi allo stile, in verità più sciolto di pennellata, del Battistero di Parma del secolo XIII: sia a quello degli Apostoli nella lunetta del portale maggiore della cattedrale di Genova; sia a quello delle pitture nell’abside della chiesa di Santa Margherita di Lana nella Venezia Tridentina; e infine con quelle dei dipinti della cripta del duomo di Aquileia, e in special modo con il seppellimento di sant’Ermacora». E qui cita, molto a proposito, L. Testi, Antonio Morassi e Pietro Toesca109.
Indi la Gabrielli continua: «Particolarmente notevoli sono le analogie fra le pitture della Novalesa e i dipinti dell’abside di Santa Margherita di Lana, che sono del 1215. Anche a Lana il trono è sovraccarico di motivi geometrici, e così le stoffe e l’allungamento della mandorla; identici i motivi a fiorellini nelle stoffe e l’accentuarsi dell’espressione drammatica. Ma alla Novalesa i movimenti sono più rigidi: a Lana più snodati ed agili». I motivi floreali a tinte policrome richiamano quelli del sottarco absidale della chiesa di san Marco di Roma; e la Gabrielli conchiude: «Le stesse forme tarde della cappella di sant’Eldrado, con sovraccarico di motivi ornamentali, si riscontrano nelle pitture della metà del XIII secolo, che si trovano nella chiesa di san Nicolò a Windisch Matrei»; e qui cita J. Garber110.
Questi rilievi della Gabrielli hanno un’importanza grandissima, perché caratterizzano le pitture della Novalesa in tutta la sostanza, di cui sono artisticamente e stilisticamente materiate. A siffatti rilievi d’una competentissima fonte, qual è Noemi Gabrielli, penso che si debba aggiungere soltanto qualche altra cosa, che può avere un tal quale peso.
Codesti affreschi novaliciensi hanno portato la loro particolare arte entro il grande ciclo pittorico nicolaiano, dicendo una loro parola, associandosi in anticipo a tutta la iconografia, che li hanno preceduti, come a quella che doveva venire di poi. E portano la loro specifica tecnica e la loro specifica ideazione, ancora ingenua, ancora balbettante, ma sempre degna di rispetto, anche là, dove assurgono alla gloria della bellezza pura i tre grandi toscani del Quattrocento: Filippo Lippi, del quale risplende il san Nicola, mirabilmente ideato, nel gradino della celebre Annunciazione nella basilica di san Lorenzo a Firenze – l’angelico Giovanni da Fiesole, del quale la Galleria Vaticana possiede tesori d’immaginazione beatificante nicolaiana – il Baldovinetti, le cui indovina- te creazioni nicolaiane s’impongono nel Museo Buonarroti in via Ghibellina a Firenze.
Né basta. Nella serie dell’iconografia su san Nicola di Bari gli affreschi della Novalesa si allineano altresì fra i tesori di omaggio, che al Santo hanno offerto i sommi geni del colore e della fede: il divino Raffaello, che pose san Nicola di Bari accanto alla famosa Madonna degli Ansidei, oggi nella National Gallery di Londra; il Veronese, che immaginò trionfalmente la consacrazione di san Nicola; Tiziano che lo affiancò alla sua bel-la Madonna dei Frari, oggi alla Pinacoteca Vaticana. Se dunque intorno a san Nicola di Bari è tutta una meravigliosa aureola d’arte, che in mille guise, in mille toni, in mille ambientazioni, prima e dopo gli affreschi della Novalesa, illumina la figura di san Nicola, ispirandosi anche al fiore delle leggende bellissime e simpatiche e degli inni elogiastici in prosa e in versi, affinché l’arte si dimostrasse tangibilmente sorella alla poesia, gli affreschi novaliciensi, ispirandosi appunto a tali leggende fiorentissime, han voluto attestare in pieno Duecento, che la fantasia sapeva fortunatamente accendersi, per dare all’ispirazione, in tal maniera infiammata, nuova forma e sostanza111.
Una circostanza va notata. San Paolo, il grande viaggiatore di Cristo, visitò Patara, patria di san Nicola, perché negli Atti degli Apostoli si legge: «e fatta vela, separatici da loro (cioè dagli anziani di Efeso), andammo direttamente a Coo, il giorno seguente a Rodi e di lì a Patara»112. Ora, se la sosta di san Paolo a Patara diede, quasi si direbbe, l’augurio della santità cristiana al futuro Santo, l’arte gli conferì la più bella conferma, che fede e santità potessero mai attendersi. In questa conferma anche gli affreschi della Novalesa hanno pieno diritto di accomunarsi.
Alla luce di questi criteri si devono giudicare, comprendere e apprezzare gli affreschi nicolaiani della Novalesa. Essi, dice il Cipolla, vennero “purtroppo” restaurati nel 1828 a cura del Borsarelli Della Rovere, per incarico di Stefano Chapuis, abate dei Cassinesi, ai quali era stata affidata l’ex abbazia no- valiciense, ma ad onta di siffatti ritocchi, si può chiaramente rilevare, che il carattere degli affreschi è prettamente bizantino. Pietro Toesca, basandosi anche sui Monumenta Novaliciensia da me citati, di Carlo Cipolla, lo conferma asseverando, che «negli affreschi di sant’Eldrado alla Novalesa (…) si ritrova la maniera bizantineggiante»114. In altro passo il Toesca ripete: «tale bizantineggiare dei pittori si presenta nel Dugento sui ridipinti affreschi di S. Eldrado alla Novalesa»115.
Meglio ancora si esprime Adolfo Venturi. Egli aveva già detto che l’affresco nella cappella di sant’Eldrado alla Novalesa “attesta in modo particolare il perdurare delle forme bizantine nell’arte pittorica sino alla fine dell’età romanica”, cioè “presso al limitare del Trecento”, e a riprova di questo fatto chiamava in causa la Novalesa: «alla Novalesa la composizione dell’abside è ispirata ai musaici greci: l’arco ha nel mezzo una croce gemmata e una fascia con foglie arricciate alla bizantina, nella conca, entro i cerchi del cielo stellato, il Cristo benedicente alla greca, sopra un seggio con cuscini all’orientale; ai lati due arcangeli, Gabriele e Michele, i cui nomi scritti in latino, portano il labaro con il monogramma cristiano, grandi stole gemmate e perlate, ali a lunghe penne in gradazioni di colore come ne’ musaici bizantini di Cefalù. Sotto i cerchi, dove siede Cristo con i piedi su una bretella, san Nicolò e sant’Eldrado, abate del monastero, stendea la mano tra le finestre degli sganci ornati di fasce luminose, come ne’ musaici. Ai piedi dei Santi si prosternano due monaci, piccole figure, quasi bocconi, al modo orientale».
Nel descrivere poi il battistero di Parma, il Venturi osserva che i due profeti «uno di qua e uno di là della finestra con ornati nell’orlo delle tuniche», sono “similissimi a quelli dell’arco dell’abside citato della badia della Novalesa»116. E ad altri affreschi accenna il Cipolla, che dovevano ornare la badia della Novalesa, di cui si devono lamentare – lo affermano tanto il Cipolla, quanto il Venturi – “«l guasto e il rifacimento»117.
Il singolarissimo carattere bizantino – e comunque orientale – sia in logico nesso con la grecità asiatica di san Nicola: grecità che non si deve dimenticare, anche se la traslazione barese del 1087 l’abbia tramutata in occidentale, in europea.
Dunque gli affreschi – sui quali le note descrittive del Venturi gettano nuova luce, in aggiunta a quanto sugli affreschi stessi ho detto io nelle mie descrizioni – sono senz’altro di maniera bizantina, bizantinismo che il pittore ha dimostrato anche nei nomi greci dei quattro punti cardinali.
Conclusione
Non c’è bisogno di dilungarsi, perché, dopo quanto detto una conclusione si formula da sé.
Gli affreschi nicolaiani della Novalesa, astrazioni fatte da quelli rifacenti, vi sono quanto di più interessante possa darsi nel settore dell’arte ispirata ai tratti biografici e alle leggende del Santo di Bari. In questo settore costituiscono un complesso particolare dell’iconografia nicolaiana, onde fa stupire che il Meisen non li abbia ricordati.
Per Bari poi e per la basilica barese di san Nicola essi destano un interesse grandissimo. Bari, con la traslazione nicolaiana compiuta dai suoi cosiddetti 62 “marinai” – che viceversa erano gente di mare, commercianti, patrizi ed ecclesiastici – del lontano aprile-maggio del 1087, ha reso “internazionale” il culto del Santo, ed è quindi più particolarmente interessata a tutto quanto in virtù di questo culto internazionale s’è fatto e si fa nel nome del “suo” Santo. Uno scrittore circa la devozione a san Nicola in Inghilterra disse: «it is more especially howerer, from the time of the removal of this body to Bari, in Apulia, that his cult became popular»: «è tuttavia, specialmente dal tempo della traslazione di questo corpo a Bari, in Puglia, che tale culto diviene popolare». Questa verità perfettamente storica va estesa dall’Inghilterra a tutte le terre d’Europa, d’Asia, d’Africa e delle Americhe, e credo anche dell’Australia, dove il nome di Cristo è giunto, in quanto ben si può affermare, che dov’è Cristo, ivi è anche san Nicola di Bari.
Sotto questo aspetto, gli affreschi della Novalesa assumono per Bari e per la sua basilica nicolaiana un valore senz’altro assai alto, tanto più che anche considerati soltanto in sé stessi, sono indiscutibilmente preziosi.
Questo ampio e dettagliato studio a firma di Francesco Babudri, risalente al 1955-58, che il curatore del volume celebrativo delle nozze del proprio figlio ha rinvenuto tra i moltissimi atti e documenti rias- sumibili nella vastissima bibliografia dello studioso istriano (cfr., Roncone N., L’Istria e la Puglia negli studi di Francesco Babudri, Bari, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1997, pp. 324), è un inedito in maniera assoluta, nonostante una fuorviante indicazione bibliografica lo indichi pubblicato in quello stesso anno, tantomeno negli anni successivi nel “Bollettino della Basilica di S. Nicola di Bari”, secondo quanto riportato da S. saVi, Bibliografia sulla Novalesa (Abbazia, Comune, Valle) dalle origini all’anno 1988, Società di ricerche e studi Valsusini, estratto da “Segusium”, n. 26, gennaio 1989, p. 202. La ricerca di tali indicazioni è stata compiuta dall’ottima dottoressa Ma- riacarmela Attolico, aiuto bibliotecaria della Biblioteca Provinciale dei Frati Minori Cappuccini di Puglia. Una spiegazione, a complemento è doverosa: il Babudri, come egli stesso afferma nella sua premessa, nella parte iniziale di questo studio, predispose una prima bozza che sottopose alle valutazioni critiche dell’Ing. Cimaz118 di Torino, il quale, premurosamente, suggerì una dettagliata integrazione di cui l’autorevole Autore tenne conto.
*Pubblicato originariamente su: Segusium , n. 56, dicembre 2018.
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Di Claudio Bollentini
Presidente di Monastica Novaliciensia Sancti Benedicti – https://www.linkedin.com/in/claudiobollentini/