Le trasformazioni della festa nella modernità avanzata.
Le trasformazioni della festa nella modernità avanzata.
Le trasformazioni della festa nella modernità avanzata
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DOC
di E Di Renzo — Enrique Gil Calvo. Festa di tutti, festa per tutti “ 41. Honorio M. Velasco, Francisco Cruces e Angel Diaz de Rada. “Che la festa cominci!
nel suo Childe Harold’s Pilgrimage indicando come l’esibizione arricchita da una scenografia particolarmente curata contribuisca ad attirare l’attenzione degli astanti sui gesti e sulla mimica di una danza, la cosidetta Vallja, che si balla con tutte le parti del corpo.
La sorpresa
Altro elemento interno allo statuto della festa in tutte le società, più o meno sollecitato da diverse condizioni socio-culturali e ambientali nelle quali la festa si svolge è certamente quello della sorpresa. È fuori di dubbio che nelle moderne società della comunicazioni di massa la soglia dello stupore si sia notevolmente elevata: il mondo esterno ci deflagra quotidianamente sotto gli occhi e lo spettatore è ormai abituato a non sorprendersi più tanto facilmente. Nei ludi cruenti delle lotte tra gladiatori o nelle carneficine dei cristiani sbranati nelle arene romane, lo stupore e la suspence erano legati alle modalità con le quali un esito già scontato in partenza – la morte di uno dei combattenti o la straziante agonia di corpi lacerati da belve affamate – sarebbe stato realizzato. L’elemento esotico – la belva – accompagnato a quello del diverso -il cristiano – rappresentavano fattori fondamentali della ‘messa in scena’.
Quando ai giuochi cruenti si sostituirono le giostre e queste andarono ad arricchire le feste civili dalle quali per lungo tempo (fino al ‘300) erano state separate, e quando con l’avvento delle signorie e dei principati si fecero più frequenti i motivi dei festeggiamenti organizzati anche solo per celebrare il ritorno del Signore da una battaglia o la visita di una principessa straniera, ci si dovette ingegnare per realizzare in modo sorprendente ma non violento l’elemento della sorpresa. Nel 1342 Stefano Colonna, a Roma, durante le feste di Carnevale fece riempire le tazze delle fontane in Campo de’ Fiori con cibi e ogni prelibatezza, per la sorpresa e l’entusiasmo della popolazione tutta. Ripristinò addirittura una tauromachia che venne disputata sulla piazza del Campidoglio. Nelle feste di Carnevale del 1500 Cesare Borgia fece sfilare in piazza Navona, a Roma, undici carri allegorici ispirati ai trionfi di Cesare. L’opposizione della Chiesa, che d’altro canto non ci teneva troppo a scontentare il popolo, per gli spettacoli che non avevano valore civile o religioso fu contenuta con l’espediente di sostituire le comparse con sculture meccaniche, nelle cerimonie delle processioni, nelle rappresentazioni dei Misteri e nelle realizzazioni dei cosiddetti Presepi viventi.
Il tema della sorpresa ci rinvia ai riti iniziatici presenti nelle culture delle società tribali dove frequentemente la sorpresa era costituita dalla fuoriuscita di un personaggio animato da un involucro materiale o da un oggetto naturale come la cavità di un albero o di un enorme guscio. Questo espediente scenico verrà ripreso in molte società e diventerà nel Rinascimento il momento culminante del banchetto festivo. Il banchetto, infatti, non costituiva un avvenimento legato essenzialmente al cibo ma era l’occasione per sbalordire attraverso l’uso di tutti e cinque i sensi: la vista si saziava della ricercatezza nel decorare il corpo da parte di uomini, donne, danzatori che gareggiavano nell’impreziosire i loro abiti, l’udito si deliziava nell’ascoltare melodie dolcissime, l’olfatto era soddisfatto nell’odorare profumi delicati di vivande, frutti abbondanti e petali di rose. I festeggiamenti per un avvenimento come le nozze di un principe duravano anche molti giorni e numerose persone erano coinvolte e nei preparativi e nei festeggiamenti stessi come i paggi e le damigelle d’onore. A proposito della discriminante di classe attribuita spesso alle forme del festivo è bene sottolineare che nella società medioevale e rinascimentale individui di bassa estrazione sociale venivano impiegati nella realizzazione della festa, pure non appartenendo al ceto aristocratico. Questi che non potevano sperare per se stessi in una cerimonia simile trovavano, nell’occasione della festa, motivo per uscire dal chiuso del loro ambiente, per comunicare, per fare esperienza anche se solo visiva di consumi e prerogative che non appartenevano loro ma che al tempo stesso seducevano e attiravano per la loro esclusività. Raffigurazioni e miniature dell’epoca ci mostrano contadini e popolani che danzano abbigliati per la festa, nonostante la condizione sociale imponesse quotidianamente un abbigliamento più pratico e adatto al lavoro manuale.
Al tempo stesso mi preme sottolineare che il costume di allestire sontuosi banchetti nel clima della festa non risulta essere stata una prerogativa dei regimi signorili: anche le antiche repubbliche come quella di Siena mostrano, dai documenti conservati, di aver prestato attenzione a questi espedienti per fare bella figura con gli aristocratici. Gli storici ci raccontano, infatti, che nel 1465 passò da Siena, alla volta di Napoli, Ippolita Sforza, figlia del Duca di Milano, che andava sposa ad Alfonso d’Aragona principe di Napoli. La repubblica per sbalordire la duchessa allestì un banchetto con spettacolo danzante e mentre venivano serviti dolci e marzapane apparve sulla scena una grande statua di legno raffigurante una lupa, simbolo della città. Nel suo interno cavo erano nascoste sei coppie di ballerini che ad un segnale uscirono fuori cantando e ballando.
Come ho già ricordato il periodo della festa è stato visto dagli antropologicome il momento nel quale, compiacente l’autorità, tutto è possibile, anche l’inversione dei ruoli o l’accadimento miracoloso – a Napoli, è l’evento della liquefazione del sangue del Santo a promuovere l’enorme impianto organizzativo della festa di S. Gennaro o è la stessa esaltazione popolare e la tensione emotiva che l’attesa dell’intera città suscita a fare sì che il miracolo si riproduca? – In realtà finita la festa tutto ritornava al suo posto e ognuno riconquistava la posizione che occupava prima dell’inizio dei festeggiamenti. Deve ritenersi importante, tuttavia, da un punto di vista anche pedagogico, che l’aver potuto partecipare dell’eccezionalità dell’evento, l’aver potuto vedere, sentire, godere delle stessa magnificenza della quale il principe si gloriava quotidianamente, dava al singolo l’impressione di esserne stabilmente parte. I carri allegorici, gli addobbi delle strade, gli archi di trionfo erano approntati da comuni cittadini che mettevano la loro abilità e le loro conoscenze tecniche e artigianali al servizio del principe che avrebbe da ciò tratto vanto e potere.
Nella società contemporanea, l’accesso illimitato ai mezzi di comunicazione di massa come la televisione non solo ha reso assolutamente permeabili le barriere sociali per ciò che concerne l’informazione ma, soprattutto, ha consentito l’acquisizione immateriale di beni e servizi attraverso la distribuzione globale della loro immagine. La festa mediatica viene continuativamente servita da una molteplicità di canali televisivi che al tempo stesso duplicano, triplicano l’evento che, oltretutto, può essere automaticamente registrato da sofisticate apparecchiature programmate dall’individuo per questa funzione, qualora egli non abbia la possibilità di assistervi in diretta.
Cosa potrà più sorprendere il disincantato telespettatore? Quale forma di spettacolo sarà orchestrata in modo tale da suscitare l’entusiasmo di un audience ormai abituata a poter selezionare, digitando (ma forse tra breve, (anche soltanto pensando) la rete che soddisfi le sempre più esigenti richieste? Quale trovata sarà così coinvolgente da trascinare la massa la quale, piuttosto che partecipare sembra preferisca assistere all’evento della festa dai maxischerini che ormai sempre più frequentemente trasmettono in presa diretta ciò che accade, magari anche a pochi metri dal luogo dove la manifestazione si sta svolgendo?
Un tempo era il sovrano o il signore a decretare l’approvazione di un espediente scenico o a favorire l’applicazione di una nuova tecnica di allestimento teatrale.
Ricordo come l’avvio della fortuna di Versailles come centro della vita di corte del regno dei Borboni in Francia fu favorito dalla decisione che Luigi XIV prese nell’assistere alla sorprendente festa organizzata dal suo soprintendente Fouquet nel castello di Vaux. Tutto l’apparato scenografico negli splendidi giardini all’italiana del sontuoso castello, il banchetto organizzato da quell’infaticabile e creativo Vattel maestro di cerimonie, i giuochi di luci ed acque che fecero risplendere i colori delle sete damascate che avvolgevano preziosamente le trecento dame presenti e, infine, le melodie inconfondibili del Maestro Lulli inebriarono Luigi a tal punto da indurlo a confiscare immediatamente e senza motivo tutti i beni del Fouquet e a trascinare alle sue dipendenze tutte le maestranze e i tecnici che si erano resi artefici di quella magnificenza. Ma, da quanto si racconta, un effetto scenico colpì più degli altri l’immaginazione del capriccioso sovrano: al termine della festa dal limite estremo dell’area antistante il palazzo, dove sdraiati sull’erba o accasciati su qualche chess-long si stavano addormentando cavalieri e dame sfiancati dalle danze protrattesi per tutta la notte, venne proiettata, all’improvviso, verso il ciclo una fantasmagoria di fuochi d’artificio. I guizzi luminosi apparvero così spettacolari nel creare fantastici arabeschi nel buio cupo della notte da essere ritenuti, dagli stessi cortigiani, quanto di più eccezionale e tecnologicamente avanzato si fosse mai visto fino ad allora durante una festa.
La fortuna dei fuochi d’artificio come espediente scenico è durata fino a noi e abbiamo notizia che dopo quasi due secoli dalla prima performance alla presenza del Re Sole, negli spettacoli che venivano messi in scena all’Augusteo di Roma e raccontati dalle celebri stampe del Thomas, il momento culminante non era dato né da banchetti, ne da danze, ma dai cosiddetti ‘fochetti’, ovvero fuochi d’artificio piazzati al centro dell’arena.
L’eccitazione prodotta da esplosioni, fuochi e faville accompagnati dallo schioppettio delle micce stesse o di vere e proprie armi pare essere indissolubilmente legata all’esecuzione della festa, alla sua messa in scena e, può apparire contraddittorio, anche alla fase finale della festa stessa. Pare fosse benaugurante la tradizione illustrataci da un’incisione di Hyalmar Morner per il Carnevale di Roma del 1820, che consisteva in una vera e propria battaglia di moccoletti che lungo il Corso da piazza del Popolo a piazza Venezia venivano accesi, forniti da venditori ambulanti, al grido ‘muoia ammazzato chi non porta il moccolo!’. I romani festaioli si affrettavano a impadronirsi di uno di questi moccoli e lo portavano correndo avanti e indietro per il Corso dando l’impressione che la via fosse in fiamme. Si celebrava, con questo carosello spettacolare, l’ultima ora del Carnevale e il giuoco consisteva nel cercare di spegnere il moccolo del vicino in un atto di ribellione verso quell’ineluttabilità che andava imponendo la fine della festa. Nelle società nomadi di cultura islamica l’evento eccezionale, l’arrivo di una buona notizia, la nascita di un figlio vengono da sempre festeggiati con spari di fucili, diretti verso il cielo; oggi ciò crea grande disappunto e apprensione da parte dei vicini di quei gruppi che, ormai in fase di sedentarizzazione, tuttavia stentano ad abbandonare questa usanza.
A questo proposito propongo all’attenzione qualche recente rivisitazione di antiche usanze osservata all’interno di cerimonie e riti di passaggio dai più, oggi, praticati secondo modelli e dispositivi suggeriti dalla modernità. Soprattutto in ambiente urbano nelle scenografie oggi curatissime, anche ai livelli economici più bassi delle classi sociali, che fanno da sfondo a matrimoni, anniversari, ricorrenze, si è ripreso a fare uso delle candele, grandi, piccole, finemente decorate, di candelabri, antichi, di famiglia, d’argento, barocchi, o semplicemente di reggicandele, spesso in totale sostituzione dell’energia elettrica, per tutta la durata del festeggiamento. Cosa ci suggerisce questo romantico revival, se non l’idea che l’individuo postmoderno sia alla ricerca, se non di una inaccessibile autenticità dell’esperienza, ormai dispersa nella inebriante molteplicità delle modalità d’uso degli oggetti, almeno della possibilità di ricreare scenari adatti a realizzarla – ciò che era naturale diventa artificiale nella destrutturazione di un mondo codificato al di fuori di noi, da macchinari intelligenti che – quando non entrano in tilt – ci forniscono a comando luce, calore, freddo, tepore, fiamme sintetiche, pioggia artificiale, ventilazione magnetica, effetti speciali.
L’eccesso
Il carattere di liminalità della festa si rivela anche sotto la forma dell’eccesso. Nella festa sia rurale che urbana, sia antica che moderna, sia augurale-celebrativa che rituale – di investitura tutto è permesso, anzi l’eccesso nella gestualità propiziato da un abbigliamento sproporzionato, ricco di ornamenti, di orpelli suonanti è motivo di orgoglio per gli organizzatori e realizza uno dei topoi fondamentali della festa: la sua rappresentatività scenografica.
Una famosa incisione di Bartolomeo Pinelli dedicata alle maschere del carnevale romano descrive perfettamente questo desiderio di sbalordire lo spettatore con l’eccesso delle forme. Tutto è marcato, eccessivo nei tratti del disegno del Pinelli. L’abbigliamento: il nano vestito da Napoleone indossa un cappello dieci volte più grande del necessario: gli abiti delle altre maschere sembrano complessivamente di alcune misure superiori rispetto alle dimensioni delle persone, gli oggetti stessi che caratterizzano le maschere come la parrucca o il cappello, ma anche gli strumenti musicali o meccanici della festa come le grandi cornamuse o i lanciasassi sono raffigurati in dimensioni sproporzionate per poter apparire, appunto, eccessivi, attirare l’attenzione, provocare.
Dagli atleti e funamboli della seconda metà dell’Ottocento che si destreggiavano nei teatri e nei circhi delle capitali europee e occidentali alle esibizioni dei mangiatori di fuoco dello Sri-Lanka (Sama Ballet) che, inseriti oggi nei circuiti internazionali dello spettacolo folkloristico, globalizzano forme locali di spettacolo iniziatico, l’eccesso si è spesso presentato come esercizio fisico e acrobazia di saltatori, prestigiatori, cavallerizzi. I numeri eseguiti all’interno di teatri e circhi erano sostanzialmente quelli eseguiti in precedenza nelle pubbliche piazze; il circo stabile, costruito in muratura come il famoso Alibert di Roma distrutto da un incendio nel 1863, consentiva la rappresentazione di giuochi ed esercizi di difficilissima esecuzione come i numeri d’equilibrio, ma al tempo stesso affiancava alle esibizioni acrobatiche dell’arena, commedie, feste carnevalesche, balletti, melodrammi, favoriti dalla efficiente attrezzatura che atleti, ballerini e funamboli vi potevano trovare.
Per lo sviluppo delle tecnologie dello spettaeolo l’esperienza circense fu fondamentale: lo rileviamo dalle rappresentazioni acrobatiche, dalle pantomime attraverso le quali si cercava di ricostruire con portentosi accorgimenti scenici, un evento storico realmente accaduto come le battaglie, le avventure piratesche ecc. Non è un caso che alcuni discendenti della famiglia circense dei Guillaume, lavorarono anche nel primo film muto come il popolare Polidor. In sostanza II cosiddetto mimodramma militare, come la parata e il carosello storico, e i giuochi nelle arene durante le feste, rappresentò probabilmente un modello per il futuro cinema che impiegò, in particolare nella fase del muto, imponenti mezzi scenici per realizzare in modo assolutamente realistico le imponenti ricostruzioni della Roma imperiale.
Attraverso queste innovazioni, nei contenuti della rappresentazione scenica inserita nella festa, ma soprattutto nelle tecnologie che consentirono il passaggio dall’immediatezza della logica della rappresentazione alla sua riproducibilità attraverso lo strumento della macchina da presa (kinetoscope) e del proiettore, la festa, da spettacolo circoscritto in un tempo e in un luogo prestabilito in base ad un ciclo calendariale rigidamente strutturato, si avvia a diventare agli albori del XX secolo, il Greatest Show on Earth (II più grande spettacolo del mondo).
Come ci fa notare Mario Verdone il cinema non ha inventato del nuovo che raramente: il più delle volte ha assunto dalle altre forme di spettacolo i maggiori motivi di attrazione. Nella fiera, nel circo, nei teatri delle pantomime, luoghi della festa itinerante perché strutture mobili essi stessi, si elaborarono tutti gli ingredienti, dall’intreccio, alla sorpresa, all’eccesso, alla risoluzione finale che oggi ci propone la festa mediatica con cinema, fiction, lungometraggi.
Se con i film spettacolari dei primi anni del Novecento la moderna scenografia riconduce la ‘messa in scena’ dai teatri di posa allo spazio reale, oggi la festa viene nuovamente rifunzionalizzata trasferendo la sfera del privato nella dimensione spettacolarizzata dello scenario pubblico multimediale dove le aspirazioni di ciascuno allo svago e al divertimento trovano risposte codificate dal nuovo lessico della comunicazione visuale. Gadget, souvenir, travestitismi, tatuaggi, trucchi, veri e falsi object-cult rendono chiunque protagonista dentro e fuori della scena: tutto è scena e la festa, talvolta purtroppo una tragica festa, è ovunque.
NOTE
1 Si veda come casi di rifunzionalizzazione di rituali festivi quali il pellegrinaggio, F. Fedeli Bernardini, Il sasso, l’acqua e la foresta: Vallepietra tra natura e cultura e G. Marucci, La litoiatria nei culti micaelici: continuità e persistenze in L. Rami Ceci (a cura di) (2003). Sassi e Templi. Il luogo antropologico tra cultura e ambiente, Roma, Armando.
2 Il concetto di liminalità al quale Victor Turner fa riferimento è preso dallo studio di Arnold Van Gennep su Les rites de passage (Ediz. Nourry, 1908 ), nel quale il limen rappresenta la fase intermedia tra la separazione e la riaggregazione. Il limen, momento che indica la soglia, il vero e proprio passaggio simbolico da uno stato all’altro si adatta molto bene, a mio avviso, a spiegare la condizione di chi partecipa ad una festa, cioè di colui che entra momentaneamente a far parte di una dimensione costruita artificiosamente e che possiede spazi, tempi e regole suoi propri o verso i quali i soggetti devono essere iniziati.
3 Gli Etruschi, sostengono gli storici, fuggiti dall’Asia sotto la guida di Tirreno, avevano edificato città nell’Italia centrale e avevano introdotto, tra gli altri loro rituali, anche gli spettacoli teatrali.
4 Si vedano: F. De Martino (l977), Storia economica di Roma antica, Firenze, La Nuova Italia; J. Carcopino (1997), La vita quotidiana a Roma, Bari, Laterza; M. Petrassi (1985), Gli ori in Italia, Roma.
5 Cfr. L. Rami Ceci, Porcellane, ninnoli e martingale, ovvero l’elogio dell’effìmero, (2002) Roma, Armando, pp. 109-111.
6 Cfr. M. Verdone, Feste e spettacoli a Roma, (1993), Roma, Newton Compton.
7 La notizia è apparsa su Repubblica 27 Dicembre 2002.
8 Cfr. E. De Martino, La fina del mondo, (1977), Torino, Einaudi.
9 Cfr. C. A. Sassayannis, Rituali, spazi e cultura nella tribù Bdul, oggi, in L. Rami Ceci (a cura di,) Sassi e Templi. Il luogo antropologico tra cultura e ambiente, cit., pp. 351-371.
10 Il gusto estetico del Rinascimento fu favorevole alla danza, ma mi sembra importante ricordare che una danza come il minuetto che si impose nelle più raffinate corti europee proveniva dal popolo: ciò rappresenta un’ulteriore conferma di come il desiderio del voluttuario, dell’intrattenimento estetico fine a se stesso non è affatto, all’origine, esclusiva di alcune classi sociali.
11 Cfr. L. Rami Ceci. Porcellane, ninnoli e martingale, ovvero l’elogio dell’effimero, cit. in part. Le vie del lusso, pag. 109.
12 Domenico da Piacenza e Guglielmo Ebreo da Pesaro scrivono trattati sul tema e la danza cessa dì essere improvvisazione e spontaneità per iscriversi nel complesso delle attitudini e nel catalogo delle cosiddette “buone maniere” che distinguevano l’uomo di corte dal popolano e dal villano.
La festa tra folklore e fakelore
Paola De Santis Ricciardone
Finalmente domenica
Nell’edizione 2000 della Guida Touring, Artigianale, sapori e tradizioni d’Italia, di ogni regione è offerto un calendario festivo, Gli eventi selezionati e considerati meritevoli di menzione al turista in cerca di autenticità locali, sono “le feste più antiche e documentate della regione”. Intatti nella rassegna troviamo la maggior parte delle feste monumentali italiane, dal Palio di Siena a quello di Asti, dai carnevali trentini alla Sartiglia di Oristano. alla macchina di Santa Rosa di Viterbo e così via. Vengono escluse, con pudore aristocratico, la miriade di feste che pure sono nate e continuano a nascere incessantemente a scopo promozionale: sagre, feste e fiere che trovano generalmente occasione in un qualche evento di tipo culinario, enogastronomico, merceologico. Sono feste per promuovere o vendere qualcosa: immagini di accoglienti mete turistiche, prodotti tipici del luogo (castagne, funghi, fagioli, ciliegie e quant’altro), pacchetti alberghieri, artigianato, visite nei musei, in parchi, trattorie e osterie. Tutti eventi viceversa segnalati con dovizia di informazioni nei siti Web delle province, dei comuni, delle regioni e nelle pubblicazioni commerciali per ambulanti: le feste, a prescindere dalla loro “antichità”, sono sempre occasioni di mercato; per un venditore di noccioline la festa dei fujenti della Madonna dell’Arco equivale alla “Sagra delle Fregnacce con la Persa” di Castelnuovo di Farfa. Potremmo definire tali occasioni “pseudo-eventi”, secondo la classica definizione di D.J. Boorstin (1961), profezie che si auto-avverano, promesse che si auto-mantengono: ovvero la celebrazione festiva dell’eccezionalità, della distinzione delle castagne di Soriano del Cimino crea di fatto la loro distinzione o eccezionaiità.
Nella Guida Touring anche la Barabbata di Marta, sempre nel viterbese, ha dignità di menzione. Una festa-capolavoro che ho avuto il privilegio di studiare giusto venticinque anni fa, dal 1978 al 1981 (de Sanctis R.P., 1982).
E proprio a ridosso di quegli anni assistevo ad una ingegnosa “invenzione” di una tradizione da parte dei martani. Marta ha un calendario festivo abbastanza ricco, ma sono feste, come appunto la Barabbata (il 14 maggio) o la festa di San Biagio (il 13 febbraio), che cadono in giornate non necessariamente festive. Sono eventi di fruizione locale che richiamano al massimo un osservatorio amatoriale. curioso, devozionale, di studio o di turismo culturale elitario. Quando, raramente, la Barabbata cade di sabato o di domenica il discorso cambia: migliaia di persone dai paesi vicini, da Roma e da altre province sin dall’alba confluiscono nel paesino affacciato sul lago di Bolsena per godersi le meravigliose fantasmagorie di una stage authenticity legata ad un mondo contadino non del tutto smarrito nella sostanza, ma di cui c’è già nostalgia. Per l’osservatore cittadino si tratta di una variante di quella nostalgia “immaginata” su cui si è soffermato Appadurai (1996, pp. 106-107) per cose cioè che non ha mai vissuto e che non ha quindi potuto perdere. Per il pubblico locale o limitrofo, in gran parte agricoltori, allevatori, pescatori, o comunque persone legate alla produzione e alla commercializzazione di prodotti agro-pastorali, si possono rintracciare forme di ”nostalgia del presente”, di cose cioè non perse completamente, come ricorda sempre Appadurai.
Dunque, i grandi sforzi, anche economici cui la popolazione di Marta si sottoponeva per le sue feste genuine, non la ripagavano appieno da un punto di vista turistico-promozionale. Mi raccontarono che un anno avevano provato a spostare la Barabbata in un giorno festivo: a parte le proteste della popolazione, pare che sia anche venuto giù un finimondo di maltempo. Ma ecco che più o meno un lustro fa entra in soccorso lo spurio folklorico con l’invenzione di una nuova festa, la “‘Sagra del Lattarino”, da tenersi finalmente di domenica, quella successiva alla Barabbata. In quel giorno, un gigantesco padellone, sul modello ormai classico e omologato del kitsch gastronomico finto-rustico, sfrigola i tipici pesciolini lacustri per la gioia dei gitanti domenicali, cannaiola e altri vini locali scorrono a volontà, le trattorie sono piene, gli operatori locali e ambulanti soddisfatti.
Lattarini, spinaci, focacce ed altri incubi dei Volkskundler
Naturalmente sulla Guida del Touring non c’è traccia della Sagra del Lattarino. Nelle odierne guide di taglio raffinato, la cattura dell’interesse turistico può passare attraverso l’offerta di ”attrazioni” presentate come non turistiche, autentiche, dense di storia e destinate ad un pubblico locale (cfr. MacCannell. 2001. p. 27). La strategia di inclusione ed esclusione di eventi e attrazioni da segnalare non è casuale. Essa discende in parte da forme di selezione insite inizialmente nella stessa demologia (cfr. Bendix, 1997, pp. 189-194), che ha in un certo senso fondato e costruito l’oggetto dei suoi studi sulla scorta di forti dicotomie atte a fugare ogni dubbio su quale fossero i legittimi campi di indagine per altrettanto legittime comunità di studiosi: folklore/folklorismo; Volkskunde/qffentliche Folklore (cfr. Kirshenblatt-Gimblett, 2000); tradizioni genuine/spurie (cfr. Handler e Linnekin, 1984), folklore autentico/falso.
La nozione di Fakelore risale a Richard Dorson, importante studioso americano di tradizioni popolari nato nel 1916 e morto nel 1981. Comparve per la prima volta sull’American Mercury nel 1950, come ricorda Alan Dundes (1989, p. 40). Dorson tornerà più volte su questo concetto sino agli ultimi lavori, tra cui la nota raccolta di saggi del 1976, intitolata appunto folklore and Fakelore: Essays toward a Discipline of Folk Studies. Riprendiamo da Dundes una definizione del concetto di Dorson risalente al 1969:
Fakelore è la presentazione di scritti sintetici e spuri con la pretesa che essi siano folklore genuino. Queste produzioni non sono raccolte sul campo ma sono riscritte da una precedente letteratura e da fonti giornalistiche in una catena senza fine di rimasticazioni, o persino fabbricati interamente, come nel caso dei numerosi “eroi popolari” scritti sulla falsariga di Paul Bunyan, il quale aveva, almeno un qualche rivolo di tradizione orale all’inizio del suo sfruttamento letterario (cit. in Dundes, 1989, p. 40).
Le leggendarie avventure di Paul Bunyan, caso emblematico e ansiogeno per Dorson di fakelore (vi tornerà infatti quasi con accanimento più volte nei suoi studi), sono molto popolari negli Stati Uniti. Si incentrano su una figura di boscaiolo votato a sconfiggere i cattivi e le avversità, anche di carattere naturale, che possono turbare la quiete tutta americana di laboriose e oneste comunità montane. Il gigante buono diventa eroe quasi sempre per caso, armato di sola buona volontà, generosità e propensione a lavorare sodo. La prima storia scritta su Bunyan apparve sul Detroit News Tribune il 24 Luglio del 1910, per opera di un giornalista, James MacGillivray (P.A.F., pp. 80-8I). Da lì, dato il successo di pubblico del racconto, più autori ritornarono sul personaggio creando una vera e propria saga. Qualche traccia di tradizione orale precedente al 1910, relativa ad un taglialegna grande e buono, esisteva in Pennsylvania, nel Wisconsin e in alcune aree del Nord ovest del Pacifico americano. Tuttavia la fissazione definitiva dei caratteri iconici e geografici di Bunyan, avvenne quando un pubblicitario del Minnesota, W.B. Laughead, produsse su di lui una serie di pamphlet tra il 1914 e il 1944 al fine di promuovere i prodotti della “River Lumber Company1′. E così Bunyan ebbe la sua dimora nel Minnesota, i suoi vestiti, i suoi stivali, i suoi piatti preferiti, insomma la sua cultura materiale di cui divenne testimonial per molte forme di commercializzazione, compresa, attualmente, quella turistica.
Più o meno la stessa cosa accadde a Popeye. il mitico Braccio di ferro. Creato nel 1929 dalla fantasia e dalla grafica di Elzie Segar, diede, con la sua crescente notorietà e popolarizzazione, un notevole impulso alla produzione di spinaci e alla loro commercializzazione in scatola. Alcune statistiche segnalano che dal 1930 al 1936 negli Stati Uniti la produzione di questo vegetale salì del 33%. E per ringraziarlo di questo, Crystal City nel Texas, che si auto-definisce “la capitale mondiale degli spinaci”, gli ha eretto un gigantesco monumento colorato proprio di fronte alla stazione di polizia. Altri monumenti a Popeye sono disseminati negli USA e si possono segnalare ricadute performative con organizzazione di feste, soprattutto a Chester nell’Illinois città natale di Segar, ovvero i cosiddetti Popeye festivals a scopo turistico-promozionale.
Anche la tradizione di Bunyan ha avuto le sue ricadute di carattere festivo. In numerose comunità montane del Minnesota e in tutto il midwest si celebrano (ma anche altrove, come ad esempio in alcuni campus universitari), specialmente in ottobre, feste chiamate “Bunyan-land”per attrarre turisti, dove si cucinano cibi del tipo “Paul Bunyan flapjacks”, gigantesche focacce dolci, oppure si fanno gare campagnole, tipo corse nei sacchi ecc. Da tempo sono nati poi dei parchi di divertimento a tema, incentrati sui racconti e i personaggi della saga di Paul Bunyan. Sono delle specie di agriturismo disneyficati, situati nei boschi, con aree sportive e di gestione del tempo libero per bambini e adulti. In questi parchi, come il Paul Bunyan Center situato nell’area dei Brainerd lakes nel Minnesota, ci sono hotel, residence, parchi gioco, negozi di souvenir legati al personaggio e visi celebrano occasionalmente numerosi Paul Bunyan festivals. Anche in Italia alcuni casi di fakelore a scopo commerciale, con invenzione di favole popolari per vendere pasta e quant’altro, furono studiate da Lombardi-Satriani (1973).
Insomma si può dire che, al di là degli anatemi di Dorson, il fakelore rischia di funzionare più e meglio del folklore.
Dundes (1989, pp. 42-44), si impegna laboriosamente a provare la inadeguatezza del concetto di fakelore, dicendo che in fin dei conti gli studiosi del folklore sin dall’inizio hanno avuto a che fare con tradizioni spurie. I canti di Ossian ad esempio raccolti da James Macphcnson nel 1765, suscitarono dubbi sulla loro adesione alla tradizione orale gaelica persino in David Hume. Ugualmente i procedimenti di “abbellimento” e di manipolazione delle fonti orali delle fiabe, ampiamente dimostrati dagli storici, farebbero virtualmente dei fratelli Grimm dei produttori di fakelore. Duiides (1989, p. 53) sostiene dunque che condanna e riprovazione non servono a nulla e suggerisce di indagare le radici storico-culturali ed economiche della fortuna del fakelore e delle motivazioni sociali e politiche che possono soggiacere a ciò che Hobsbawn (1983, pp. 3-17) ha chiamato l’invenzione della tradizione. Falsa o vera che sia, una tradizione, se ha una presa sociale, deve essere studiata seriamente.
Attribuzionismo ed expertise antropologica
Tuttavia Dundes non decostruisce sino in fondo la distinzione elaborata da Dorson. In un certo senso, come Hobsbawn, sembra voler accettare che da qualche parte ci siano “tradizioni non inventate”, vero folklore e quant’altro. Anche se invita a non demonizzare lo spurio e il falso e a studiarli con impegno e serietà.
Come già accennato, la ricerca di spartiacque tra puro e spurio, tra genuino e contaminato, tra autentico e falso ha, di fatto, accompagnato la crescita e il destino istituzionale del nostro campo del sapere. In qualche modo sembra riverberarsi anche oggi in alcune fortunate formulazioni recenti. Come quella celebre dei “nonluoghi”, alla quale Augè (1992) oppone ancora una volta una nozione di località autentica, radicata, frutto di differenziate strategie etniche di domesticazione dello spazio. Ma tutto può essere relatizzato e molto può dipendere dalle situazioni e dai punti di vista: come ha sottolineato Ritzer (1993, p. 84), per il turista americano in terre lontane il passare sotto l’arco “familiare” di un McDonald’s, può significare un temporaneo e confortevole rientro a casa.
Anche in Italia le preoccupazioni per la contaminazione – o impazzimento – dei “frutti puri”, per rimandare all’espressione utilizzata da Clifford ( 1988), sono presenti sin dagli albori della formazione della nostra comunità scientifica. Da Tommaseo (1832, p. 16) che si ribella contro le “canzonucciacce scipite” che circolavano a Cutigliano, “nido de’ rispetti antichi”, a Pitré, a molti collaboratori dell’Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari. Caterina Pigorini-Beri nel 1880 vedrà con sospetto persino l’alfabetizzazione degli strati contadini italiani, che potrebbe inquinare i costumi popolari ancora allora percepiti come “incolumi” e ”schietti”. E per restare sulle feste, la Pigorini-Beri teme che il “villan rifatto”, impari sulla carta stampata che la polvere pirica che utilizza per i mortaretti del Corpus Domini possa essere impiegata per fini ben più “cruenti e spaventevoli”.
In antropologia, la vocazione all’expertise dell’autentico etnico-folklorico si è nutrita per decenni di una ricca metodologia su basi filologiche: una sorta di attribuzionismo sui generis molto più visibile in campo storico-artistico, come nel caso della scuola di Roberto Longhi (1954).
Sull’autentico, come luogo ideale o retorico in cui situare la legittimazione dell’oggetto di studio e contemporaneamente della comunità scientifica, c’è un dibattito più che decennale nell’antropologia contemporanea. Nella generale “crisi della rappresentazione” che pervade da tempo i nostri campi del sapere, circolano ormai molteplici nozioni di autenticità, soprattutto in relazione al moderno consumo dell’autentico generato dall’industria turistica. Si può ricordare qui il generoso tentativo effettuato da Shaul Kelner (2001) di fare un certo ordine tra orientamenti oggettivisti, costruttivisti, essenzialisti. antiessenzialisti, esistenzialisti, emergenzialisti e così via.
Riassumendo, gli antropologi delle ultime generazioni, tendono in qualche modo a connettere l’autentico, che non può essere un concetto astratto e slegato dai suoi usi sociali, storici o scientifici, con la questione invece fondamentale dell’autenticazione. Il terreno dell’autenticazione è sicuramente un luogo di riflessione più idoneo e meno sfuggente per essere analizzato storicamente, perché mette in ballo i produttori di saperi come i soggetti che di volta in volta elaborano le regole del gioco linguistico che genera autenticità etnica, folklorica, estetica e così via: “I folkloristi non scoprono, costituiscono; e la relazione fra ciò che costituiscono e il reale, non è quella della verificazione” (Barbara Kirshenblatt-Gimblett, 1988, p. 3).
L’attribuzionismo nella storia dell’arte è anche legato al mercato, l’expertise infatti è strategica e necessaria per vendere l’opera. Qualcosa di analogo è successo anche nell’antropologia. I nativi americani hanno dovuto subire per secoli il patronage di filantropi, antropologi, antiquari e collezionisti sulla loro cultura materiale, sulle loro cerimonie, sulle loro danze, perché non si distaccassero da standard etnici di “autenticità” Navajo, Hopi, Zuni e quant’altro (Mullin, 1995, p. 178 e sgg.). Un’autenticità che da un lato veniva intesa paternalisticamente come leva per valorizzare e promuovere le culture native agli occhi dei turisti americani, dei commercianti, dei collezionisti. Dall’altro, la struttura rigida dei canoni di expertise, talvolta addirittura costruiti a tavolino sulla scorta di testimonianze archeologiche del tutto ignote agli stessi nativi (Wade, 1986, p. 246 e sgg.), metteva a nudo il gioco paradossale dell’autenticazione antropologica dei secoli scorsi. Infatti l’attribuzionismo etnico-folklorico non può andare sempre in parallelo con l’attribuzionismo in campo storico-artistico; se di un quadro di un artista scomparso si può documentare ragionevolmente la falsità (“non è un Picasso”), altrettanto non si può fare di un manufatto, di una festa, di una cerimonia messi in atto da genti vive e vegete. A meno di non voler cadere nei paradossi di sostenere che quel souvenir fatto da un artigiano Hopi non è Hopi, che la tal festa di Marta non è martana.
Autoattibuzionismo
Fortunatamente per tutti noi, martani, Hopi ed etnie di studiosi, si è compreso che le nozioni molteplici di autenticità, quand’anche se ne riesca a fissare qualcuna per qualche mese o anno, sono in continuo transito. Pertanto, ciò che magari un tempo veniva percepito come inautentico, turistizzato, spurio, non genuino, può tranquillamente subire un processo di ridefinizione e divenire “autenticità emergente” (Wang, 1999. p. 355, cit. in Kelner, 2001, p. 2). Molti oggetti destinati al cosiddetto consumo delle identità come i souvenir, ieri considerati ciarpame nativo e rigidamente esclusi “da ogni seria considerazione a causa di prestabiliti rigidi criteri di autenticità” (Phillips. 1998, p. IX), oggi finiscono nei musei e godono di nuovi statuti di definizione e interpretaziune.
Tuttavia, per Barbara Kirshenblatt-Gimblett (Franklin. 2001, p. 214 e sgg.) nessuna delle nozioni di autenticità, anche le più obsolete ed ”essenzialiste”, sembra mai svanire del tutto. Antropologi e demologi se le vedono ricomparire come ectoplasmi del passato nelle guide, nelle aspettative dei turisti, nell’offentliche Folklore, nei musei locali, nelle feste e nelle sagre paesane, nelle mostre, nelle pubblicazioni degli eruditi locali, nelle politiche degli assessorati alla cultura, nelle promozioni commerciali e quant’altro.
Insomma, la conoscenza demologica, come ogni altra forma di sapere è uscita da tempo dalle parrocchie della comunità scientifica. Entrando nel sociale più allargato, comprese quelle comunità e località studiate, le sue tesi, modelli e concetti si sono trasformati in azione. Una volta in libera circolazione, gli studiosi non hanno più controllo sui loro costrutti. E se da decenni, poniamo, il taglio frazeriano di lettura della ritualità popolare è stato abbandonato, non significa che esso non continui a esercitare un certo fascino narrativo (da grande narrazione ritrovata) in molti di coloro che elaborano discorsi sulle proprie tradizioni festive. Ed è comprensibile: fra le narrazioni antropologiche, è difficile che trovino soddisfacenti usi locali gli attuali tormentoni antiessenzialisti, sulle identità deterritorializzate, sull’autenticità folklorica come costrutto retorico, gioco linguistico e così via. E quand’anche ci si inventi dalla sera alla mattina una bella sagra paesana a fini turistici, è meglio strizzare l’occhio alla Cerere di Frazer e di Paolo Toschi piuttosto che alle tourist bubbles di John Urry (cfr. MacCannell, 2001, p. 26).
Ma gli utenti locali dei saperi antropologici non sono sempre così ingrati e irriconoscenti nei confronti della comunità scientifica. Seppure in Italia non si è ancora consolidato quel forte settore accademico che negli Stati Uniti si denomina Public Folklore (Kirshenblatt-Gimblett, 2000), tuttavia demologi ed antropologi hanno il loro da fare con musei locali, nazionali, assessorati alla cultura, con la conservazione e catalogazione dei beni, con convegni di studio locali, con la preparazione di operatori nel turismo culturale e così via.
Ma talvolta ci sono delle domande ulteriori, come se l’antropologo fosse una sorta di tutore sacerdotale delle conoscenze locali. In uno scenario che vede indebolire narrazioni e saperi legati al folklore, il ruolo dell’antropologo come dispensatore di forme di expertise localmente utili, può essere ad esempio catturato appieno nel caso raccontato da Thomas Hauschild (1992). Professore di Antropologia all’Università di Tubinga, ha compiuto studi sul campo in Basilicata. Nei suoi soggiorni a Ripacandida negli anni Ottanta del secolo scorso, si trovò a raccogliere informazioni intorno alla festa del Santo patrono, San Donato. E i ripacandidesi, vedendo il suo interessamento e riconoscendogli appunto il ruolo di tutore dell’autentico in quanto antropologo, gli offrirono di far parte del comitato dei festeggiamenti, accanto al prete, agli esponenti della pro-loco, alle confraternite e così via. Lui accettò, naturalmente con la scusa dell’osservazione da un punto di vista estremamente privilegiato. Si trattava infatti di avere la fortuna di entrare in una di quelle chimeriche back regions culturali (MacCannell, 1976, p. 92) tanto agognate da turisti e da antropologi.
Le feste possono essere intese come “ribalte” (front regions), o anche retroscena (back regions) seguendo la fortunata distinzione di Goffman (1959. p. 127 e sgg.), sui quali si mettono in scena diverse e anche contraddittorie forme di “autenticità” locale. Per MacCannell (1976, p. 91), la ricerca della “vita vera” è il penoso calvario (più che pellegrinaggio) dell’Uomo Moderno che sente sfuggire l’attaccamento al lavoro, al vicinato, alla città, alla famiglia che un tempo chiamav a “suoi propri. Nella decomposizione di significati condivisi e del senso di appartenenza, egli avrebbe, sempre per MacCannell, ”sviluppato interesse per la ‘vita reale’ degli “altri”.
Un calvario che in realtà sembra non portarlo da nessuna parte. Tutti sembrano tramare perche non raggiunga il suo obbiettivo. L’industria turistica e le comunità locali mettono in scena ormai non solo “ribalte”, ma anche i più perversi “retroscena” (back regions) proprio per dargli “la sensazione di essere penetrato al di là di un falso fronte” (Kelner. 2001, p. 2). La prognosi e infausta:
L’idea qui è che un falso retroscena può essere più insidioso di una ribalta, cioè una demistificazione inautentica della vita sociale non è semplicemente una bugìa, ma una superbugia, del tipo di quelle che sgorgano con sincerità (MacCannell, 1973, p. 599).
Ci sono molte cose che non convincono in questa idea della trama a danno del povero “uomo moderno” che non riesce più a situarsi da nessuna parte e che tenta invano di riscaldarsi al tepore delle autenticità altrui. E molto più verosimile che nel gioco dei finti e veri retroscena, finte e vere ribalte (se pure possano essere considerate dicotomie accettabili), non c’è etnia, gruppo o persona al mondo che non vi resti in qualche modo imbrigliato, più o meno consapevolmente.
L’imperfetto folklorico
La ricerca della ”autenticità” non è solo una chimera di folkloristi, antropologi o turisti. Si può concordare che la nozione transiti e che sia variamente costruita sulla scorta di accorgimenti retorici o strategie culturali differenti. Ma è una chimera condivisa, a livello locale, etnico, politico, sociale, personale. La cifra del folklore-Volkskunde non è il disincanto, quanto piuttosto, oggi più che mai, l’orgoglio. Se il tempo della scrittura etnografica è il presente, come sostiene Fabian (1983), il tempo della demologia è l’imperfetto e non a caso. Quel “c’era una volta”, o “un tempo si soleva” su cui spesso si aprivano le descrizioni degli usi e costumi popolari più “incolumi” da sempre considerati specie in estinzione, sono diventati oggi parte integrante delle narrazioni locali sul proprio folklore.
Per parlare dell’imperfetto folklorico, cambieremo scenario e ci sposteremo dalle paludi antropologiche alle ridenti praterie a cavallo fra l’Iowa e il Nebraska negli Stati Uniti.
Nell’agosto del 1997 ero in cerca di surmodernità nella riserva della Nazione Umonhon (Omaha), Cercavo di fare una visita ragionata del grande Casino che i nativi sono riusciti a costruire nel loro territorio, dopo una lunga battaglia legale con il governo federale. La maggior parte dei croupier erano nativi, come pure i venditori di souvenir nel gift-shop, e qualche (non molti) giocatore. Erano vestiti all’occidentale, con le loro divise aziendali se lavoratori, con i loro jeans o altri abbigliamenti standardizzati se avventori. Cominciai a parlare con la ragazza della reception del Casino. Non ero alla ricerca di nessuna “indianità” verace, volevo solo sapere se poteva mettermi in contatto con qualcuno che mi parlasse di dati ufficiali, battaglie legali, rapporti manageriali con gli altri casino (in special modo con quelli di Las Vegas), numero di Omaha impiegati nell’impresa, e cose del genere. La ragazza sembrò capire subito che specie di avventore fossi, genere antropologi, giornalisti, sociologi ed altri ficcanaso. Dopo aver tentennato un pò con risposte laconiche mi chiese perché mai stessi a perdere del tempo con lei e mi disse di andare subito, anzi di tutta fretta, a Macy, il villaggio principale della Riserva, dove lei stessa vìveva. Come era possibile: io volevo restare nella front-rcgion e lei mi spediva a casa sua? Non capivo, ma obbedii.
Dopo un percorso in auto di pochi chilometri interrotto da cartelli che indicavano che ci si stava addentrando nei territori della Nazione, e dopo aver incontrato – con una certa emozione – la fabbrica del tabacco Omaha, con il suo rosso e leggendario logo, arrivai a Macy. Un villaggio con costruzioni basse, dignitoso anche se a tratti trasandato. Più mi avvicinavo alla piazza principale e più mi sembrava di avere le traveggole. Vedevo decine di persone che confluivano a passo svelto verso un grande spiazzo, donne, uomini, bambini, anziani. La cosa per me surreale è che erano tutti vestiti all’imperfetto, ovvero nei loro tradizionalissimi costumi, con tanto di piume, trecce, mocassini, pettorali d’osso e tessuti colorati. Sulle prime pensai che stessero girando un film. Tutti sorridevano, mi invitavano ad affrettarmi e mi indicavano la strada. Alla fine ci fu il disvelamento. Ero stata gentilmente consigliata di assistere al 193° Pow-Wow della nazione Umonhon che si teneva a Macy dal 14 al 17 agosto del 1997. Per la modica cifra di cinque dollari entrai nell’arena festiva, mi fu fatto dono di una spilla di metallo stampato di commemorazione (che conservo gelosamente) e di un inserto del giornale “The Umonhon Traveller” interamente dedicato al Pow-Wow. I sentieri sterrati che conducevano al grande spiazzo dove si sarebbero svolte le danze erano pieni di bancarelle, alcune che vendevano souvenir, artigianato nativo più o meno commerciale, altre CocaCola, hamburger e cibi yankee di uso consueto. A ridosso e tutto intorno allo spiazzo c’era un accampamento costituito da una grande distesa di tende, del genere canadese, moderne, ma “indiane” a tutti gli effetti, perché dentro c’erano gli ospiti, rappresentanti delle tribù vicine e lontane, che partecipavano ai Pow-Wow con i loro gruppi di danzatori e di suonatori.
Al centro dell’arena, sotto un padiglione sormontato da potenti amplificatori, un gruppo di suonatori di tamburi aveva già cominciato a scandire quel genere di ritmi che graffiano l’anima a tutti quelli che sin da bambini nei film western sono sempre dalla parte degli indiani. Intorno migliaia di spettatori divertiti e plaudenti, bianchi pochi, qualche decina in tutto, alcuni chiaramente facenti parte di gruppi familiari misti, con bambini nelle tipiche ”culle a slitta”. Poi cominciarono le danze, quelle tradizionali fancy degli uomini, quelle del Grano Verde, quelle tradizionali fancy dei ragazzi, delle ragazze e delle donne e così via. Vidi che ogni gruppo che entrava nelle sezioni di danza recava un numero e cosi mi resi conto che certi posti riservati di tribuna erano per i giudici. Si trattava insomma anche di una gara per i migliori danzatori, con premi varianti da 1500 a 100 dollari. Il premio più alto era riservato al primo classificato fra i gruppi over 46 che interpretavano le danze Tradizionali degli Uomini. La corrispettiva sezione femminileprevedeva invece un premio di 500 dollari inferiore (significherà qualcosa?).
Feste e guastafeste
Complessivamente fu uno spettacolo di godimento superbo e di grandissimo valore educativo, anche per chi, come me, sa solo qualcosa di libresco sulle culture native americane e nulla di etnomusicologia e di danze tradizionali. Che si trattasse di una staged authenticity non vi era ombra di dubbio, data la grazia performativa e la condiscendenza con cui guerrieri, danzatori, musicisti, astanti e venditori si facevano fotografare e filmare da chiunque, parenti, amici, yankces, turisti e persino da una antropologa italiana finita lì per puro caso. Ma è difficile pensare a questa “autenticità messa in scena1′ come a un qualcosa che non abbia significato e funzione per gli Omaha stessi e i loro ospiti. Nei giorni del Pow-Wow ho visto persone orgogliose dei loro abiti, fiere delle loro abilità performative, ho visto migliaia di nativi che si divertivano ed applaudivano, genitori emozionati nel vedere le loro bambine danzare perfettamente con i loro abiti tintinnanti.
Nella letteratura specialistica si tende generalmente a considerare i Pow-Wow come forme recenti e spettacolari di cerimonie, una sorta insomma di fakelore fortemente inquinato dal meccanismo teatrale e dall’elemento competitivo delle gare a premi.
Tara Browner è professore associato di Etnomusicologia e di Studi Amerindi presso l’università della California a Los Angeles, insegna e studia le musiche e le danze native ed è lei stessa una danzatrice e percussionista. Nel suo recente volume dedicato al Pow-Wow nel Nord America scrive con molta chiarezza:
Alcuni studiosi, come Weibel-Orlando nel 1991, hanno fornito una caratterizzazione dei Pow-Wow come delle restituzioni inautentiche di un passato glorificato, simulazioni sensa referenti culturali interiori, elaborati teatrini etnici dove gli Indiani costruiscono una idealizzata identità e la presentano all’esterno. In Pan-Indianism in Native American Music and Dance, James Howard riassume questo atteggiamento con la frase “Meglio Pan-Indianoche non Indiano” (Browner, 2002, cap. I).
Quindi, al di là della metanarrazione storico-filologica sulle origini del Pow-Wow su cui si può anche concordare, sta di fatto che oggi i nativi come gli Omaha, a prescindere dalla “cornice” teatrale o di gara utilizzata, usano narrazioni totalmente differenti per ciascuna delle singole danze facendo sempre riferimento a qualcosa di molto radicato, antico, “autentico”. Nell’inserto di giornale che mi hanno dato, si può leggere delle origini della Men’s Grass Dance che loro fanno risalire ad un episodio di guerra intertribale con i Lakota, e altre narrazioni simili. E anche le trasformazioni delle danze di guerra nelle attuali nuove versioni sono raccontate in una forte vena di radicamento etnico:
Sui finire dell’Ottocento, quando i popoli nativi americani non furono più in guerra, la Danza di Guerra cominciò ad assumere un significato completamente, nuovo. Attraverso gli anni è diventata un modo di richiamare profondi, radicati sentimenti e tradizioni. Un modo per trasmettere il senso dell’orgoglio nella cultura nativa americana alle nuove generazioni (The Umonhon Traveller. 10 luglio 1997).
Tutto questo insomma sembra avere molto a che fare con l’essenzialismo della vecchia antropologia. Ma se a loro piace, qualche giorno dell’anno, rappresentarsi all’imperfetto e rintracciare così una cifra di autenticità nel passato, non sarà certo qualche antropologo a guastare loro la festa.
La festa di sant’Antonio abate a Collelongo:
tradizione e innovazioni
Gabriella Marucci
Collelongo è un piccolo paese della Marsica, posto a 915 metri di altitudine, in prossimità della piana del Fucino. La sua storia è antica, come dimostra il vicino sito archeologico di Amplero, dove sono stati ritrovati vari tipi di ceramica lavorata, alcuni dei quali, di provenienza danubiana, costituiscono la traccia tangibile di remoti rapporti culturali di matrice indoeuropea.
I poco più di mille abitanti del paese vivono, si può dire da sempre, di agricoltura, allevamento e pastorizia, quest’ultima sempre meno praticata. Negli ultimi decenni, infatti, l’inevitabile omologazione ai modelli di vita urbani proposti dalle vicine città di Avczzano e di L’Aquila, insieme allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e soprattutto all’abbandono da parte dei giovani delle attività economiche tradizionali, hanno trasformato la vita economica e sociale della comunità. Tuttavia, il veloce adeguamento ai modi di vita urbani non è riuscito a recidere il tenacissimo legame dei collelonghesi, giovani e anziani, con il loro passato, che viene tuttora percepito come ricco di valori e di stimoli validi. Questo diffuso sentimento si esprime in credenze, riti, pratiche comunitarie di singolare e persistente vivezza.
A iniziare dal 1991, ho condotto a Collelongo una lunga se pur discontinua ricerca sul terreno, che mi ha offerto l’opportunità di creare con molti paesani un rapporto di contiguità che si potrebbe definire affettuosa, fatto di spontanea ospitalità e di disponibilità a raccontare e a raccontarsi. Ebbene, l’impressione che ho costantemente ricevuto è che i Collelonghesi accettano volentieri le novità, ma, in una sorta di processo di accumulo, conservano usi antichi, che, in sintesi felice con il pedaggio offerto alla ‘modernizzazione’, trovano spesso un nuovo slancio.
La festa di sant’Antonio abate costituisce un esempio lampante di questa capacità di sintesi. Ho assistito all’evento festivo per tre anni consecutivi, recandomi in paese prima, durante e dopo lo svolgimento delle celebrazioni, canonicamente fissate al 16, 17, 18 di gennaio. Gli anni successivi mi sono limitata a raccogliere informazioni a distanza sull’andamento della festa, sul numero e sulla tipologia dei partecipanti e su particolari dei quali volevo seguire l’eventuale evoluzione. Infine, nell’anno in corso (2003), sono tornata per un’ultima volta ‘sul terreno’ con lo scopo di ricavare alcuni necessari riscontri alle mie ipotesi; come già nel ’93, ero accompagnata da una piccola équipe dotata di telecamere professionali e di altre attrezzature di rilevamento. È stato così possibile filmare tutto l’apparato celebrativo nella sua completa interezza: il materiale, sommato a quello già montato, consentirà di costruire un filmato che renda efficacemente l’idea della festa e delle sue dinamiche espressive.
Per una pura casualità, la RAI, che era presente con una sua troupe, ha pregato di seguire e commentare la festa con i suoi inviati. La presenza ufficiale e all’apparenza apportatrice di prestigio del medium pubblico non e stata priva di conseguenze, come si potrà rilevare in un saggio successivo a questo.
Un lavoro di ricerca tanto lungo e accurato sulla ricorrenza collelonghese è dovuto alla non comune sovrabbondanza di simboli e di atti rituali in essa osservabili; è infatti vero che nei numerosissimi paesi italiani, e non,} dove nella stessa data si celebra questo popolarissimo santo, ci si limita manifestazioni più semplici, imperniate per lo più all’accensione di roghi e fuochi, spesso imponenti. A Collelongo l’apparato festivo è molto complesso e si articola, oltre all’accensione di fuochi, in questue, cortei di musicanti, offerte primiziali al santo e, soprattutto, nella distribuzione rituale di cibo, il cui simbolo principale e irrinunciabile è costituito da enormi calderoni di rame, detti ‘cottore’, nei quali vengono cotti quintali di mais, poi distribuiti a migliaia di ‘ospiti’.
Base ineliminabile e perno immutabile della festa è dunque lo ‘spreco rituale’, l’offerta e il consumo collettivo di cibo; soprattutto, ma non solo, di granturco. I grani di quest’ultimo, una volta cotti, prendono il nome di ‘cicerocchi’, a ricordo dei ceci usati fino all’ultima guerra. È il mais del raccolto precedente, che viene offerto al santo e consumato in attesa della successiva produzione.
Lo spreco ritualizzato di cibo viene anticipato da un’istituzione molto diffusa in tutta la regione: la questua. In tempi non lontani, vari giorni prima dell’Epifania arrivavano dai paesi vicini i ‘poveri’, che andavano questuando di casa in casa ricevendo generose quantità di pane, farina, lardo. Come si può facilmente comprendere, questa usanza è stata cancellata da un generale miglioramento delle condizioni di vita. Attualmente, continuano a essere praticati altri due tipi di questua. Una, di recente ideazione, viene affidata al Comitato Organizzatore della festa al fine di raccogliere il denaro destinato a sovvenzionare l’acquisto di fuochi d’artificio, di manifesti e del maialino che sarà il protagonista della riffa il 18 pomeriggio. La seconda questua, di antica tradizione, è eseguita da gruppi di ragazzi del paese che, nella settimana precedente la ricorrenza, passano di porta in porta suonando e cantando la canzone del santo e ricevendo in cambio piccoli rinfreschi. Fino a una trentina di anni fa, e in paese ne è ancora vivo il ricordo, i ragazzi compivano il loro giro vestiti da contadini, da diavoli o del saio da eremita, recitando ad ogni tappa scenette della vita del santo.
La questua è contrassegnata dalla obbligatorietà del dare: rifiutare l’offerta ai questuanti equivarrebbe a rifiutarla al santo in persona, dimostrandogli in tal modo una grave mancanza di rispetto e di devozione, alla quale egli risponderà con malevolenza; chi rifiuta di dare, non solo non riceverà, ma ne subirà un danno.
Sempre nei giorni immediatamente precedenti la festa, le donne preparano le cosiddette ‘panette’. Si tratta di panini di farina di grano, di forma tondeggiante, un tempo di uso solo festivo, cotte in quantità enormi per poter essere distribuite a tutti. Ora, sono molte le donne che si limitano a cuocere semplici rosette o a comprarle; ma il nome, tradizionalmente declinato al femminile, è rimasto. Per tutta la durata della festa, le panette sono considerate speciali, costituiscono il ‘pane del santo’, preparato con la farina ottenuta grazie alla riuscita della festa precedente e al favore conseguentemente accordato da Antonio al raccolto. Sono dunque delle vere e proprie strenne e come tali vanno donate, ricevute, ricambiate. Conclusasi la festa, perderanno ogni valore e verranno semplicemente gettate via, tranne alcune che, almeno nelle case dei più anziani, vengono conservate per poter spegnere un eventuale incendio. L’anziana Lidia S. e le sue parenti coetanee, indifferenti alla benevola incredulità dei familiari più giovani, ricordano con assoluta certezza di aver visto alcuni incendi scoppiati in stalle o case spenti grazie alle panette prontamente gettatevi dentro: quindi, per precauzione, ne tengono sempre un paio in casa.
La festa
Il 16 gennaio, verso le undici del mattino, iniziano in sordina le prime manifestazioni festive, che, pur non svolgendosi nell’ambito del tempo rituale vero e proprio, lo preannunciano. Un piccolo corteo composto di alcuni musicanti con fisarmoniche, cembali e percussioni, comincia a percorrere le strade del paese; guida il gruppetto sant’Antonio in persona: è un collelonghese, Fiore S., che con saio, bastone a tau e campanella, da un paio di decenni impersona, anzi, diventa sant’Antonio.
Verso le tredici, una famiglia che abita in una casa sulla strada principale organizza un pranzo all’aperto per tutti i compaesani. Questo dono alimentare risale a un voto fatto decenni or sono da un avo e trasmesso patrilinearmente ad ogni generazione. L’attuale capo-famiglia afferma di non ricordare o forse di non aver mai conosciuto il motivo del voto, né la sua collocazione oraria, ma si dichiara fermamente convinto a proseguire la tradizione. Il pranzo consiste di una pasta e fagioli, cotta da un uomo di casa in una caldaia posta su di un fornello all’aperto, mentre le donne preparano in un cortile interno stoviglie, vino, panette. Tutti partecipano alla distribuzione, sindaco, parroco e sant’Antonio compresi. Giungono anche, recando recipienti di vario tipo, i familiari di anziani e ammalati per prendere un po’ di minestra per chi è impossibilitato a muoversi. Non sono mossi da motivi economici, naturalmente, ma solo dalla convinzione che ognuno debba ricevere la sua parte del pasto collettivo ed essere coinvolto nel giro delle offerte alimentari.
Nelle ore del pomeriggio, mentre sant’Antonio e i musicanti continuano il loro giro suonando ininterrottamente la canzone del santo, vengono dati gli ultimi ritocchi alle cottore. Con questo termine non ci si riferisce alle sole caldaie, ma ai focolari sui quali sono poste e, per estensione, all’ambiente che le ospita. Le caldaie vengono riempite d’acqua, il mais sgranato messo a portata di mano, i rinfreschi e i decori sistemati. Ordinate file di arance ornano i focolari, così come la statua dal santo in chiesa. Terminata la festa, saranno donate ai meno abbienti. Come ha detto il padrone di casa di una cottora: “Qui tutto viene offerto, questa è la notte dei doni”.
Alle sedici, un colpo di pistola sparato dalla piazza principale del paese segna l’inizio dei riti. Simultaneamente, in ogni cottora, una donna accende il fuoco sotto la caldaia, recitando al contempo litanie e preghiere: il semplice e domestico gesto dell’accensione del focolare viene cosi posto nel territorio del sacro. Le preghiere sono formulate in un latino incomprensibile, il cui significato è serenamente ignorato dagli astanti e la cui eventuale traduzione avrebbe un’importanza del tutto trascurabile: è proprio la sua incomprensibilità a dargli un senso. Qualche ora dopo, si getta il mais nell’acqua bollente.
Intorno alle venti, alcuni giovani del Comitato Organizzatore, servendosi di lunghe scale, accendono i due ‘torcioni’. Sono enormi gabbie di ferro a forma di colonne rastremate verso il basso, riempite di legna raccolta nel territorio boschivo comunale. Il parroco, in cotta e stola, accende dal torcione collocato davanti al sagrato una ‘torcetta’, sorta di lunga fiaccola di legno e cera. I presenti, a loro volta, accendono le loro passandosi l’un l’altro il fuoco del santo. Ha quindi inizio un corteo, composto dal sacerdote con i chierichetti, da paesani disposti in coppie con le torce tenute basse e quasi incrociate, sant’Antonio con i suoi musicanti; dietro si accoda la folla dei presenti.
Il parroco, con il suo affollato corteo, passa di cottora in cottora, benedicendo i focolari e rendendoli accessibili alla collettività festante. Un tempo questo cerimoniale durava molte ore, perché il numero delle cottore si aggirava fra le venti e le venticinque, una per ogni famiglia estesa. Alcune righe su questo curioso attrezzo domestico ne chiariranno l’importanza.
Le cottore di rame esistenti in paese sono tutte antiche di cento, centocinquanta anni circa; fino alla generazione passata dovevano essere trasmesse matrilinearmente, insieme all’obbligo di organizzare un focolare. In caso una delle figlie fosse rimasta nubile, la cottora sarebbe passata a lei e quindi, dopo questa sosta nella famiglia paterna, alle figlie delle sorelle. Questo passaggio poteva dare adito a complicazioni diplomatiche di non lieve entità e a lunghe diatribe. Un fatto sembra comunque certo: le cottore, almeno negli ultimi cento anni, hanno seguito le donne da una generazione all’altra, nel loro peregrinare da una razza all’altra. Da qualche anno le cottore vengono spesso trasmesse dalle madri ai figli maschi primogeniti. I paesani non danno spiegazione alcuna a questo cambiamento, quasi certamente dovuto all’estinzione del movimento migratorio e della transumanza, che allontanavano gli uomini da casa per mesi o anni; il mantenimento della residenza da parte dei maschi delle famiglie può aver portato allo scoperto una tendenza che per decenni si era manifestata occasionalmente con il passaggio della caldaia alla figlia nubile e alla casa paterna di lei. Impossibile sapere se si tratta del ripristino di una antica tradizione patrilineare interrotta da un sceolo di emigrazioni o di un fenomeno nuovo.
Il corteo che con il parroco apre ufficialmente l’accesso alle cottore è l’unico evento di questa festa che assomigli ad una processione, con il suo deambulare chiuso, interno al paese, cui si fondono le caratteristiche del pellegrinaggio, con una collettività in cammino verso la casa, anzi, le case del santo.
Terminato il suo giro di benedizioni, il parroco rientra in chiesa; ne uscirà più tardi per godersi la festa, svestito degli abiti liturgici e insieme della sua funzione di rappresentante ufficiale della Chiesa. Questo discreto ritirarsi consentirà al santo ‘vivente’ di rivestire nuovamente il suo saio e di iniziare con i musicanti il proprio giro per le cottore.
Per tutta la notte migliaia di persone passeranno di focolare in focolare, più e più volte, accettando cicerocchi, panette, dolci. vino. La gente accorre numerosa da tutti i paesi vicini, molti sono gli emigrati, ormai da sempre residenti oltre-oceano, che tornano per l’occasione. Si formano spontaneamente vari gruppi: chi segue Antonio, chi parenti o amici incontrati lungo il percorso, chi si aggrega ad altri improvvisati musicanti. Ogni volta che un gruppo entra in una cottora, si svolge uno scambio di saluti e auguri con i padroni di casa, usando la formula di rito: “Tanti auguri alla cottora!”. Sarà così per tutta la notte, con un flusso ininterrotto di gente che continua ad arrivare e che si inserisce senza sosta nel giro della distribuzione di cibo, auguri, saluti. La neve, il ghiaccio e il freddo intenso dell’inverno marsicano non hanno mai costituito un deterrente all’accorrere di una tale folla. Può capitare che una cottora sia gremita di gente che mangia, canta, chiacchiera e che si svuoti all’improvviso per riempirsi, dopo qualche minuto di silenzio, di altra gente allegra e rumorosa. E, come nella mitica caldaia del celta Beltain, il cibo sembra inesauribile, ce n’è sempre per tutti.
Alle prime luci dell’alba, tutti si riuniscono sul sagrato della chiesa. I torcioni nel frattempo si sono disfatti in una montagna di cenere, che riscalda la gente in attesa. Silenziose, arrivano in fila alcune ragazze in costume tradizionale, recanti sul capo delle conche di rame ornate di fiori, luci, scene miniaturizzate della vita del santo. Dopo averle fatte sfilare, un’apposita giuria assegnerà premi alla conca più applaudita e all’abito più bello e di pregio. Fino a venti, trenta anni fa, quando le cottore erano organizzate solo dalle famiglie, questo che ora è un breve cerimoniale era molto più complesso: da ogni focolare uscivano le padrone di casa recando delle conche che venivano allineate sul sagrato; quindi, dalle cottore arrivavano delle ragazze abbigliate in costume, che sorreggevano sul capo conche decorate, seguite a loro volta da cortei di altre giovani che trasportavano recipienti pieni di cicerocchi; questi venivano versati nelle conche già predisposte e messi a disposizione dei poveri di tutti i paesi vicini. Solo dopo questa rinnovata dimostrazione di solidarietà e di spreco rituale di cibo, veniva premiata la conca più riccamente decorata, con l’accompagnamento del rumoroso tifo dei parenti delle fanciulle.
Le ragazze,giovanissime, poco più che bambine, continuano a sfilare e a preparare conche sempre più originali, ma non sono più rappresentative di una specifica cottora. La loro esibizione e la loro connessione con le conche ha perso la vecchia, manifesta valenza di fertilità e di fecondità; ne resta il ricordo, nello sfilare delle fanciulle davanti alla gente, apertamente esposte e protagoniste di una gara gentile, insieme all’usanza di chiamare ogni vincitrice “La conca più bella dell’anno…”, che identifica la giovane con un recipiente di evidente forma femminile, colmo di cibo e di promesse di vita. Lo spreco rituale, l’orgia alimentare, l’ostentazione di prodotti, l’offerta primiziale, l’accensione di fuochi, sono elementi che connotano la festa di sant’Antonio a Collelongo come una festa di Capodanno, che imita, auspica e inaugura una stagione di abbondanza; una festa solare-agraria, solitamente connessa ad una economia prevalentemente agricola. Questa constatazione porta a rilevare una sorta di contraddizione, rappresentata proprio dalla figura sacra cui la festa è dedicata.
Sant’Antonio fu un eremita egiziano del III secolo, reso famoso in tutto il mondo cristiano dalla biografia scritta in greco da Atanasio e da lui stesso diffusa in Europa. Grazie alle successive traduzioni nelle varie lingue dell’epoca, il fascino austero del santo, vigoroso, incolto e irruente, lo portò ad essere il popolarissimo capofila del movimento monastico europeo, destinato a influenzare per secoli la vita religiosa e sociale dell’Occidente. Nell’ambito della religione cosiddetta popolare e nel corso dei secoli, la figura di sant’Antonio ha sviluppato una personalità sfaccettata e controversa. Un aspetto interessante, connesso alle narrazioni delle lotte dell’eremita col diavolo, è quello bricconesco e scaltro dell’uomo di campagna che con la sua furbizia supera le difficoltà postegli dal demonio, la cui perfidia è sempre derubricata in dispettosità. Questo ritratto popolaresco si riflette in canzoni umoristiche, molto conosciute nel Centro-Sud italiano. A Collelongo, già da vari anni sacerdoti e membri del Comitato Organizzatore hanno ‘epurato’ le scherzose canzoni locali, introducendo testi devotamente ortodossi. Nel 1992, il ricordo delle caratteristiche clownesche del santo non era ancora sopito: il corteo benedicente di quell’anno fu interrotto all’improvviso dalla figura piroettante di un sant’Antonio vestito di bianco che, dopo aver attraversato la folla, eseguendo velocemente alcuni salti mortali, sparì nella notte.
Radicatissima e ineliminabile è in paese la percezione del santo come Padrone del fuoco, ma soprattutto come protettore degli animali domestici, degli allevatori, dei pastori e dei cacciatori (categoria che ha a che fare con animali selvatici, evidentemente esclusi dal patrocinio). Nel nome di sant’Antonio, dopo la messa delle sei, la mattina del 17 il sacerdote benediceva gli animali, portati numerosi sul sagrato dai loro proprietari; l’usanza è ora desueta. In suo onore, fino ad una decina di anni fa, i fedeli ponevano davanti alla sua statua offerte primiziali, quali salsicce, porzioni di animali, uova fecondate. Inoltre, in paese, come del resto in molte località italiane, si narra che la notte del 16 gennaio, il santo si rechi in tutte le stalle domandando agli animali come siano stati trattati dai loro padroni, distribuendo premi e punizioni a seconda delle risposte.
Come osserva V. Lanternari a proposito della figura del Signore degli Animali, cui Antonio va a mio avviso omologato, essa tende continuamente a polarizzarsi in senso malefico e il suo precario equilibrio fra benevolenza e ostilità deve essere mantenuto con offerte e cautele rituali: solo un rito ben eseguito assicura la sua benefica funzione elargitrice. I Collelonghesi hanno idee chiarissime in proposito: ”sant’Antonio è il padrone degli animali”, ripetono continuamente, e aggiungono: “sant’Antonio è dispettoso”. E non si tratta degli innocenti dispetti che le leggende umoristiche narrano egli ritorcesse sul diavolo, tutt’altro: il santo offeso fa incendiare, provoca morie di animali e ‘manda’ la malattia del fuoco che porta il suo nome. In paese si tramanda una ricca anedottica sull’argomento. Questa componente malevola, così strettamente congiunta a quella propizia, è confermata da W. Cianciusi, colto avvocato di Collelongo, autore di numerosi saggi sul paese e sulla storia della regione, che cita la “pervicace e proterva volontà di nuocere del Santo, cui non si può fare torto non compiendo il sacrifìcio” (Cianciusi, 1972, pp. 333). La festa, appunto, che facit sacrum l’alimento considerato più importante.
La percezione ambivalente della figura del patrono è ideologicamente connessa alle più antiche attività della Marsica, la pastorizia e l’allevamento, affiancate da una difficile agricoltura, che da tempo, grazie soprattutto al prosciugamento del Fucino, ha preso il sopravvento su ogni altra attività tradizionale. A Collelongo, tutto il rituale di sant’Antonio si aggancia esclusivamente al ciclo agrario, con le caratteristiche oblative connesse alla prevalente esperienza dell’agricoltura: l’accensione di fuochi notturni, lo spreco rituale di doni e di cibo, l’ostentazione di prodotti della terra, l’aspettativa che, in contraccambio, il santo favorisca il prossimo raccolto. Ma il ritratto del patrono che emerge parlando con la gente del paese è unicamente quello del custode degli animali e dell’etica comportamentale nei loro confronti.
Innovazioni
Le cottore sono sempre state di tipo esclusivamente famigliare, organizzate nell’ambito di ogni razza, con il volonteroso aiuto di amici e vicini, che in tal modo potevano partecipare della futura benevolenza di sant’Antonio. Fra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, molte famiglie non furono in grado di affrontare la spesa e la fatica di ‘distribuire la festa’. Spontaneamente, nessuno ricorda più su iniziativa di chi, si corse ai ripari. Così, quando nel 1991 andai per la prima volta a Collelongo per assistere all’evento, vi erano solo due cottore ‘private’, mentre due erano state organizzate dal Comitato Alpini, molto popolare in paese, e dal Comitato Organizzatore della festa, che mai negli anni precedenti aveva svolto un compito simile. Nel 1993, il processo innovativo compì un ulteriore passo avanti. Il numero delle cottore era aumentato, con grande soddisfazione dei paesani; alle due familiari che avevano resistito tenacemente, se ne erano aggiunte altre cinque, offerte dal gruppi di varia composizione: i bambini della scuola elementare con le loro maestre; giovani e giovanissimi di quattordici, sedici anni; il Comitato Alpini; il Comitato Organizzatore. Questi ultimi sono diventati presenze fisse, almeno fino all’anno in corso. Lo stesso schema, con alcune varianti, si è: ripetuto negli anni successivi.
Dal 2002, alle due vecchie cottore private se ne è aggiunta una nuova, offerta da un giovane architetto che da qualche tempo vive in paese con la famiglia e che esprime il suo desiderio di integrazione usando un mezzo di immediata comunicabilità. Alle cottore ‘pubbliche’ ormai entrate nella tradizione festiva, Comitato Alpini, Comitato Organizzatore, Giovani, si sono aggiunte quella della Pro Loco e quella, curatissima nella scenografia e abbondantissima nell’offerta di rinfreschi, organizzata da un gruppo che potremmo definire ‘politicamente impegnato’.
Il passaggio da cottore solo private ad un sistema misto che vede protagonisti per accuratezza e disponibilità di mezzi i gruppi non parentali, non è avvertito dalla gente del paese come una reale trasformazione, probabilmente anche per la gradualità del processo, ma soprattutto perché la prassi rituale sembra, ed è, quella di sempre: anzi, le cottore non solo sono sempre al centro dell’evento, ma sono tornate ad essere numerose.
Ma la trasformazione si è verificata. Fino a una ventina circa di anni fa, il migliaio di abitanti del paese seguiva i ritmi tranquilli e ripetitivi di una vita faticosa, non necessariamente povera, ma contrassegnata da un notevole distacco dai modelli urbani, segnatamente dalle tecnologie e dai mass-media. In pochi anni la piccola società collelonghese è enormemente mutata. La famiglia estesa non è più la colonna portante della vita individuale e sociale, il cui fulcro si è spostato all’esterno. La scuola è considerata importante e sempre più frequentemente i ragazzi prolungano gli studi fino al diploma o alla laurea; di conseguenza, sono pochissimi coloro che si dedicano alle occupazioni tradizionali. Ragazze e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo con i coetanei e, finiti gli studi, preferiscono impiegarsi in azienda o negli uffici, anche a costo di fare i pendolari con la città. Bambini, ragazzi e giovani hanno decisamente acquisito una nuova rilevanza sociale. Si aggiunga, a questo epocale cambiamento, l’azzeramento del flusso migratorio che per decenni ha allontanato da casa soprattutto gli uomini. La piccola società odierna non avverte più l’urgenza di confermarsi come imperniata su di una famiglia, percepita come meno fragile che in passato. L’attuale organizzazione festiva riconosce dunque l’esistenza di fasce d’età e di gruppi che hanno un effettivo ruolo nella collettività.
Per concludere, ciò che colpisce, in un panorama nazionale variegato di migliaia di feste sacre scomparse o derubricate a sagre, è che la collettività di Collelongo continua ad autorappresentarsi e a mostrarsi utilizzando i mezzi di sempre: la festa di sant’Antonio, le cottore, il grande consumo collettivo di doni alimentari. Questa particolare festa ha dunque manifestato la capacità di modellarsi flessibilmente sulle nuove esigenze e sulla nuova realtà.
Probabilmente è per questo motivo che i Collelonghesi, interpellati in proposito, negano che si sia verificato un vero cambiamento: l’evento festivo viene continuamente riplasmato dagli stessi protagonisti in modo da corrispondere a come essi percepiscono la loro stessa identità.
La festa di sant’Antonio abate a Collelongo:
rifondazione massmediatica di un evento popolare
Ernesto Di Renzo
Il presente contributo mira a completare la trilogia di interventi che è stata esposta, in occasione dell’VIII Convegno AISEA, sul soggetto della festa di sant’Antonio abate a Collelongo (L’Aquila).
Considerato che sulle modalità di attuazione dell’evento, così come sui contenuti ritualistici e sulle valenze simboliche, è stato scritto con esaurienza di discorso in altre pagine di questo volume, mi limiterò qui a rendere conto di alcune incongruità che l’edizione di quest’anno ha fatto registrare in rapporto al suo modello di svolgimento originario per effetto di una interferenza esterna causata dalla presenza del mezzo televisivo nazionale.
Parlare di tale interferenza, se da una parte significherà ricostruire la breve cronistoria dei fatti accaduti nel piccolo comune abruzzese la sera del 16 gennaio, dall’altra significherà potersi aprire a delle riflessioni di carattere più generale che riguardano il modo in cui i modelli mass-mediatici dominanti usano rivolgere lo sguardo alla realtà del mondo foklorico con pervicaci accenti riduzionistici e manipolatori; restituendone il più delle volte un’immagine oleografica, in posa, edulcorata, pittoresca e, non raramente, destorificata.
Simili accenti, pur sfuggendo (verosimilmente) a preordinate strategie volte ad attualizzare la dialettica contrappositiva tra cultura egemonica e culture subalterne, di fatto palesano l’esistenza di un processo di deriva ideologica che procrastina ai nostri giorni l’annosa questione del modo in cui la cultura ufficiale interpreta la realtà antropologica del mondo popolare.
Di cottora in cottora: la destrutturazione del rito
L’edizione 2003 della festa di sant’Antonio abate verrà certamente ricordata nella memoria dei suoi protagonisti come quella della sua rifondazione dovuta alla presenza di una troupe televisiva di un noto programma di intrattenimento RAI. Una presenza, come avrò modo di dettagliare più avanti, tutt’altro che mimetica o discreta; al contrario invadente e rumorosa, come si addice a chiunque agisca nella consapevolezza di essere il vero ed indiscusso protagonista della situazione. Una presenza, inoltre, dapprima fortemente caldeggiata, quindi sopportata, infine apertamente contestata a causa dei numerosi disguidi che ha provocato nello svolgimento del protocollo rituale.
Sebbene ogni anno le celebrazioni collelonghesi richiamino un discreto numero di emittenti pubbliche e private provenienti dall’intera regione, evidentemente mosse dal desiderio di documentare un avvenimento dagli apparati scenografici altamente suggestivi, nell’edizione appena trascorsa ad incrementare il drappello dei cine-operatori ha agito in maniera risolutiva la determinazione dell’attivo sindaco del paese. Costui, sollecitato sia da opportunismo politico sia da spirito campanilistico, ha pensato di dare il massimo risalto all’evento e ai suoi illustri partecipanti – alcuni parlamentari, esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo, amministratori pubblici di vario calibro – chiamando in causa una popolare trasmissione dell’ente televisivo nazionale in onda quotidianamente nella fascia di programmazione mattutina. Inoltre, da politico abile e navigato, ha ritenuto di conferire il più ampio risalto all’avvenimento attraverso un’opera di promozione pubblicitaria condotta sulle pagine della stampa locale. Risultato: si è venuto a creare un clima di entusiasmo generalizzato che ha caricato la festa di comprensibili aspettative da parte dei protagonisti. Ben presto, però, costretti a doversi contraddire.
Infatti, benché il programma dei festeggiamenti fosse stato curato nei minimi dettagli, è apparso subito chiaro che a dettare le regole del gioco non sarebbero stati il comitato organizzatore, i proprietari delle cottore, il sindaco, il parroco, il santo “incarnato” nella figura di Fiore Salucci, bensì l’intera troupe televisiva inviata dalla RAI: quindi il regista, il conduttore, l’autore del programma, il cameraman, il tecnico dei suoni.
Questi, come preludio a quanto più avanti sarebbe dovuto accadere, come prima cosa si sono presentati in paese con circa due ore di ritardo rispetto ai tempi previsti, determinando un significativo slittamento dell’accensione del torcione che segnala l’inizio dei riti; quindi, esponendo difficoltà logistiche che avrebbero imposto il rientro a Roma la notte stessa, hanno chiesto di poter anticipare, dunque simulare, alcune importanti sequenze cerimoniali destinate a svolgersi solo alle primissime ore del mattino seguente. Inoltre, per esigenze di natura scenografica, hanno imposto la delocalizzazione di particolari eventi rituali rispetto ai luoghi normativamente preposti al loro svolgimento, facendoli ripetere più di una volta al fine di ottenere la ripresa più adatta alla successiva messa in onda. Inutile sottolinearlo, questi eventi che si aveva premura di filmare erano quelli che comportavano l’esibizione di figuranti in costume e che servivano a rendere al meglio una certa immagine stereotipata che la televisione è usa restituire della festa popolare.
A questi ritardi iniziali, già causa delle prime reazioni di insofferenza da parte dei collelonghesi, se ne sono venuti aggiungendo di ulteriori in concomitanza di ogni tappa che il piccolo corteo – composto dal parroco, dai musicanti e dalle autorità civili – compie in corrispondenza di ciascuna cottora per impartire la dovuta benedizione: atto, questo, che apre l’accesso al consumo collettivo del cibo rituale (cicerocchi)da parte della folla in pressante attesa. A determinare il rallentamento di siffatte cerimonie ogni volta sono sopravvenuti motivi logistici legati al posizionamento delle luci, dei microfoni e della telecamera.
Oramai, nella misura in cui gli imprevisti venivano affastellandosi, appariva a tutti chiaro che i tempi del rituale non sarebbero stati più quelli canonici sanciti dalla tradizione bensì quelli tecnici imposti dalla presenza del mezzo audiovisivo. La festa, cioè, stava sperimentando una sua singolare destrutturazione ad opera dell’illustre ospite.
Ma il vero climax disorganizzativo è stato raggiunto verso le ventitré, in corrispondenza della cosiddetta cottora di AN, la più spettacolare in termini scenografici e proprio per questo reputata dal conduttore RAI come spazio ideale per la realizzazione di alcune interviste. Senonché, sopraggiunte difficoltà connesse al difettoso funzionamento degli apparati audiofonici, hanno fatto sì che lo zelante inviato attuasse una sorta di sequestro del parroco fino a che il problema non si fosse pienamente risolto. Si è venuta così a creare, per circa una quarantina di minuti, una complicata situazione di stallo strutturale del rituale: da una parte si è impedito al parroco di concludere il suo giro di benedizioni non ancora ultimato, cosa gravissima in quanto fino a che una cottora non viene benedetta i proprietari non possono adempiere ai loro doveri di dispensare cibo a paesani e forestieri; dall’altra si è obbligato centinaia di persone ad accalcarsi in spazi ristrettissimi e ad attendere un tempo eccessivamente dilatato per ricevere la spettante razione di cicerocchi, vino e dolcetti. Questa imbarazzante impasse, la cui risoluzione positiva è stata raggiunta soltanto con il ricorso al buon senso di posticipare ad altro luogo e in altro momento le programmate interviste, ha fatto sì che le regole dell’ospitalità saltassero definitivamente con reprimende ed invettive rivolte al personale della Rai.
Offesi dalle eccessive intemperanze della troupe televisiva, i collelonghesi si sono infatti decisi a riconquistare la “proprietà” della loro festa mettendosi addirittura in urto con il sindaco, “colpevole” di aver favorito la sventurata presenza del mezzo televisivo.
«Non è possibile accettare una cosa simile solo per apparire qualche minuto in televisione», ha inveito con manifesta irritazione all’indirizzo della troupe un membro del comitato còlto in piena emergenza organizzativa:
qua ci sono migliaia di persone che vengono da Avezzano, da Celano, da Roma, da Sulmona, dall’Aquila e non possiamo certo fare questa brutta figura, se no’ che pensano chi siamo. Abbiamo sopportato di cominciare la festa in ritardo per colpa vostra, vi abbiamo accontetati a fa’ sfilare le conche in anticipo, siamo stati gentili e disponibili a tutte le richieste che ci avete fatto, ma adesso basta! Chi vi credete di essere. Tanto se poi succede qualcosa di storto è con noi che tutti quanti se la pigliano, mica co’ voi.
«È vero», gli ha fatto subitanea eco un altrettanto risentito testimone, esasperato dal lungo periodo di attesa dinanzi la porta sbarrata della cottora:
il fatto che la festa sarà ancora più conosciuta va bene, è una bella cosa, però ora si comincia a esagerare. La gente si lamenta perché viene allontanata per lasciare il posto ai politici e perché non viene fatta entrare fino a quando voi [la troupe] non ve ne andate. Io allora dico: se volete venire alla festa venite pure, ma come tutti gli altri. Fate una cosa tranquilla. La festa è la nostra e voi aspettate. Vi mettete in fila e aspettate. Non esiste che io e i miei amici veniamo cacciati dalle cottore perché sta arrivando il presidente della regione o perché voi della televisione tardate a fare le vostre riprese. Non esiste proprio!
Questo concitato siparietto veniva dipanandosi mentre tra il nutrito gruppo di astanti si levava a mo’ di coro lo slogan: «fuori la Rai dalla festa!»
Finalmente, a partire dalla mezzanotte, malgrado intralci e dilazioni di ogni sorta, i festeggiamenti hanno ripreso a seguire il loro giusto corso. Eclissatisi gli illustri ospiti e ristabiliti i ritmi consueti di partecipazione al rito, le migliaia di presenti hanno continuato ad aggirarsi caoticamente per le cottore del paese bevendo e mangiando in onore del santo. Alle prime luci dell’alba, scomparsa ogni traccia della presenza forestiera, i collelonghesi si sono finalmente ritrovati nel privato dell’ordine comunitario a celebrare la parte più intima e attesa dell’intero complesso festivo: la premiazione della più bella tra le conche da parata e la conseguente (ri)affermazione dei ranghi di prestigio tra le “razze” o i vari gruppi sodalistici. Il tutto nell’attesa di potersi rivedere l’indomani nei resoconti di un conduttore di Saxa Rubra.
In che modo la presenza del mezzo televisivo nazionale ha agito nel rifondare la festa collelonghese di sant’Antonio abate? Direi che due sono gli ordini di considerazione da doversi valutare: l’uno riguarda le alterazioni che la presenza della troupe Rai ha determinato nelle modalità di svolgimento del rituale, con le eventuali conseguenze – in questo caso apparentemente scongiurate – sulla gestione degli equilibri intra e inter-comunitari; l’altro attiene il modo in cui l’immagine della festa è stata dapprima ricercata, quindi riproposta nella successiva messa in onda delle riprese filmate.
La festa come prestazione di tipo agonistico
La ricorrenza di gennaio, rappresenta per la collettività del piccolo paese dell’Abruzzo montano un evento celebrativo i cui significati si collocano su un piano di interessi che travalica la sfera del semplice dato religioso-devozionale. L’offerta e il consumo rituale dei cicerocchi, infatti, se da una parte rinvia ad una pratica propiziatoria di natura magico-religiosa , propria dell’ideologia contadina arcaica, dall’altra assembla su di sé valori che investono il campo della competizione e dell’affermazione del prestigio sociale, individuale e di gruppo.
La posta in gioco si presenta ogni volta elevatissima: dalla riuscita o meno della festa può infatti derivare l’accrescimento o lo scadimento della reputazione di chi ne cura direttamente l’organizzazione. E poiché la composizione del comitato dei festeggiamenti sembra riflettere di volta in volta una precisa componente ceto-anagrafica della comunità locale, ecco allora che la riuscita o il fallimento della festa può conseguentemente tradursi, agli occhi dell’intero paese, nell’affermazione, o nel declassamento, di questa o di quella specifica categoria di persone. Un affermazione e/o declassamento i cui effetti possono arrivare a coinvolgere la sfera della stessa amministrazione politica che ha il compito di sovrintendere all’allestimento logistico, e in parte finanziario, dell’evento.
Ma non è solo il piano delle relazioni intra-comunitarie a risentire degli esiti della festa. Questi, infatti, possono arrivare a coinvolgere anche il campo dei rapporti inter-comunitari che insistono tra Collelongo ed i paesi posti nelle sue immediate adiacenze: primi tra tutti Trasacco e Villavallelonga. In essi, contemporaneamente alla festa dei cicerocchi, si celebrano da antica data due feste similari che vedono nel santo anacoreta egiziano ancora una volta l’indiscusso protagonista. Sebbene tali eventi si svolgano secondo procedimenti simbolici e ritualistici di diversa natura, tuttavia la distribuzione gratuita di cibo rappresenta per entrambi la componente cerimoniale di maggiore interesse collettivo; un interesse che ogni anno mobilita un discreto contingente di forestieri provenienti dall’intero territorio della Marsica. Benché l’entità dei partecipanti ai tre diversi contesti non sia mai stato minimamente paragonabile in termini numerici (a sicuro vantaggio di Collelongo), è tuttavia evidente che la competizione festiva costituisce un campo di confronto aperto su cui i singoli paesi sono chiamati necessariamente a misurarsi. A rappresentare la posta in gioco non ci sono solo gli intensi spiriti campanilistici espressi dagli abitanti di ciascuna località: c’è anche, e soprattutto, la capacità di saper gestire con vantaggio un’offerta ludico-ricreativa in grado di attrarre la parte più cospicua di una domanda turistica in costante incremento.
La distorsione dello sguardo televisivo
L’altro ordine di considerazione da doversi valutare, al fine di delineare il carattere rifondativo della festa, attiene al modo in cui la sua immagine è stata riproposta nel servizio televisivo ad essa dedicato. Come spesso accade quando la tivù prende a soggetto il mondo della realtà popolare, anche nel caso in questione è stata messa in onda una lettura pittoresca dell’evento tutta tesa a far risaltare – in alcuni minuti di esposizione – le sue sfaccettature folcloristiche, accentuandone le componenti ludiche, orgiastiche, e goderecce: sfilata di comparse in costume tradizionale, bevute di vino, abbondanza di alimenti, manipolazione del fuoco; componenti che, per quanto rivestano un ruolo importante nella coreografia della festa tuttavia non ne esauriscono sostanza, svolgimento e interessi. Si potrà a questo punto obiettare che compito della televisione generalista non è quello di proporre delle letture antropologiche della società nel cui seno essa opera, bensì quello di offrire spettacolo, fare intrattenimento, incrementare l’audience. E su ciò, credo, una ragionevole dose di buon senso potrà trovarci tutti d’accordo. Ciò non toglie che potrebbero essere prese in considerazione letture “diverse” di quelle stesse realtà tali da sfuggire ai banali cliché cui il telespettatore è abituato (destinato!) ad assistere con sempre maggiore frequenza. Con questa opinione voglio ricondurmi ad un discorso di portata più generale che verte sul modo in cui i modelli di cultura dominanti, di cui la televisione è il formidabile portavoce, si rapportano alla realtà del mondo popolare.
La televisione, tanto quella pubblica che quella commerciale, osserva il mondo della cultura folklorica attraverso una serie di stereotipie risolutamente incanalate all’interno di una gamma fissa di situazioni. Tra queste situazioni è innanzitutto la festa, ma anche la fiera, la sagra, la parata in costume ad intercettare ed esaurire la parte più considerevole dell’interesse mass-mediatico. In più, all’interno di queste uniche, o quasi uniche, situazioni l’attenzione delle telecamere sembra privilegiare esclusivamente alcuni tratti, o performance, a scapito di tutti gli altri: figuranti in abito tradizionale che danzano o posano in continuazione; orchestrine che eseguono lisci, tarantelle o saltarelli; tavolate dove si cucina secondo “antiche” ricette o dove si espongono abbondanti prelibatezze gastronomiche degne di una corte rinascimentale; caratterizzazione colorita, dei personaggi.
Il mondo folklorico sembra dunque trasparire agli occhi di una diffusa programmazione televisiva, come lo spazio e il tempo di una festa permanente che si contrappone strutturalmente alla dimensione frenetica, produttiva ed alienante della realtà metropolitana. Una dimensione in cui risiedono, in perfetta modulazione e in evidente atmosfera di astoricità, dimensione ludico-infantile dell’esistenza, veracità delle tradizioni, armonia dei rapporti interpersonali, eufonia tra uomo ed ambiente.
In un recente programma di intrattenimento andato in onda domenica 1 giugno 2003 su una emittente del maggiore gruppo televisivo commerciale nazionale il conduttore, dovendo commentare una delle tante manifestazioni popolari che animano il panorama dell’Italia rurale, ha esordito pronunciando le seguenti parole:
Benvenuti a Arquà Petrarca, dove tutto è rimasto come nel 1200, nel 1300 meglio, quando Petrarca venne qui a vivere e trascorse gli ultimi anni della sua esistenza. Quando dico che tutto è rimasto come allora non scherzo, come potete vedere dal pane che si sta preparando nel modo in cui si faceva nel Medioevo. Il grano duro viene ancora oggi messo in macine di pietra e poi, dopo essere stato ammassato rigorosamente a mano dalle donne del posto viene messo a cuocere in antichi forni di pietra […].
Tutto questo dire mentre un’orchestrina in costume suonava arie di sapore medievale; una comparsa dalla fisionomia giullaresca muoveva allegramente la macina del grano; massaie operose si affaccendavano a svolgere quella che, secondo le parole del conduttore, sarebbe dovuta essere una loro incombenza quotidiana.
Ma il vero campionario delle stereotipie fatte circolare dalla programmazione televisiva sulla realtà del mondo popolare affiora in tutta la sua persuasiva espressività nel campo della comunicazione pubblicitaria. Nel patinato e suadente universo dei “consigli per gli acquisti” tale realtà si colora di una molteplicità di tratti artatamente contraffatti che sembrano rinviare alle estetizzanti e ottocentesche pagine di un Tommaseo, di un Tigri o di un Giusti.
La dimensione folklorico/rurale diventa così:
- un mondo georgico dove la mietitura del grano costituisce un elemento di corale serenità e al cui interno un’avvenente contadina, per nulla provata dalla fatica del raccolto, si muove tra le messi con un fascio di spighe tra le mani (réclame di un marchio di pasta);
- un luogo idilliaco dove la farina viene prodotta da graziosi mulini ad acqua immersi nei toni pastello di una quiete senza tempo (réclame di un marchio di biscotti);
- una realtà schietta in cui le donne – ignare dei miracoli che possono compiere le lavatrici! – lavano a mano le camicie dei propri mariti con lo scopo di renderle bianche e splendenti (réclame di un marchio di detersivo);
- una dimensione armonica dell’esistenza dove le relazioni inter-generazionali sono improntate all’insegna dell’armonia, dei buoni sentimenti e delle dolci note (réclame di un marchio di prodotti surgelati);
- un ambiente genuino dove si persevera nelle abitudini alimentari sane e naturali di una volta, ma – paganamente! – si ignora la delizia di certi prelibati condimenti (réclame di un marchio di majonese);
- un posto dove il parto di animali si svolge in una dimensione di serena attesa all’interno di spazi dominati dalla compostezza e dal calore domestico (réclame di un marchio di liquori);
- un habitat immacolato dove la natura domina incontrastata in perfetta sintonia con i pastori e le loro greggi (réclame di un marchio di automobili e di un marchio di cioccolato).
Certo, tutti noi possiamo riscontrare che non sono più i tempi in cui i contadini andavano in giro scalzi e a dorso di mulo; che non sono più i tempi in cui la realtà del mondo rurale era così come veniva ritratta nei servizi degli anni ’60 di Nanni Loy o di Sergio Zavoli. Tuttavia mi sembra di poter constatare che non siano neanche più i tempi del sabato del villaggio, degli organetti e dei saltarelli, dei lupini e dei cantastorie, come la televisione, o almeno una certa televisione generalista incline al folklorico e al popolaresco vuol farci ingenuamente credere. Se alla base di queste immagini messe costantemente in onda agisca una qualche forma di nostalgismo storico, di strategia politica, di mistificazione ideologica o semplicemente di abbaglio antropologico è quanto, credo, meriterebbe di essere approfondito con maggiore adeguatezza.
Saggio tratto dal volume di L.Bonato (a cura di), Festa viva. Continuità, mutamento, tradizione, Torino, Omega, edizioni, vol I (II), pp. 37-48
Saggio tratto dal volume di L.Bonato (a cura di), Festa viva. Continuità, mutamento, tradizione, Torino, Omega, edizioni, vol I (II), pp. 231-239.
Saggio tratto dal volume di L.Bonato (a cura di), Festa viva. Continuità, mutamento, tradizione, Torino, Omega, edizioni, vol I (II), pp. 251-258
Cfr. ivi, Marucci, La festa di sant’Antonio abate a Collelongo: tradizione e innovazioni; Salvatore, La festa di S. Antonio Abate a Collelongo: diventare il santo.
Cfr. Salvatore, op. cit., ivi.
Questo modo di denominare la cottora fa rifermento alle simpatie politiche della famiglia che la gestisce.
Lo stesso sindaco, a sua volta, preoccupato dalle ripercussioni che i fatti accaduti avrebbero potuto generare sul piano delle stabilità politiche, a termine dei festeggiamenti mi ha confidato tutta la sua costernazione per la prepotenza manifestata dalla troupe televisiva; esprimendo la ferma decisione a riferire “a chi di dovere” circa gli atteggiamenti colonizzatori che l’intero paese ha dovuto subire nel più assoluto diniego delle regole del rispetto e dell’ospitalità.
La messa in onda del servizio è avvenuta la domenica successiva alla data della festa.
Si consulti al riguardo tutta l’interpretazione storico-antropologica del rituale collelonghese elaborata da Alfonso Di Nola, 1976, pp. 179-265.
All’interno dell’organigramma comunitario agiscono diverse componenti in costante confronto dialettico: anziani/giovani, uomini/donne, professionisti/agricoltori, conservatori/tradizionalisti, di destra/di centro-sinistra. Da questa dialettica sociale, la comunità collelonghese trae una formidabile forza propulsiva che anima, ed ha animato, il panorama culturale del paese, rendendolo tra i più dinamici del comprensorio marsicano.
In passato, in base a quanto riferitomi da alcuni intervistati, il mal riuscito funzionamento della festa è stato causa del declino di un’amministrazione politica direttamente coinvolta nella sua cattiva organizzazione.
Ovviamente queste riflessioni non prendono in considerazione quei format di approfondimento che lo stesso mezzo televisivo pubblico saltuariamente promuove e che alcune tivù tematiche propongono, in maniera ancora più sistematica, nelle proprie programmazioni.
Cfr. Cirese, 1972, pp.134 e sgg.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
DI NOLA A. (1976), Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri.
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LANTERNARI V. (1983), Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio.
DI RENZO E. (2000), Si parva licet componere magnis. Forme minime di pellegrinaggio, in Marucci Gabriella (a cura di), Il viaggio sacro. Culti pellegrinali e santuari in Abruzzo, Colledara (TE), Andromeda.
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BIANCO C., DEL NINNO M. (1981), Festa. Antropologia e semiotica, Firenze, Nuova Guaraldi.
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CLEMENTE P., MUGNAINI F. (2001), Oltre il folklore, Roma, Carocci.
BRAVO G. L. (1984), Festa contadina e società complessa, Milano, Franco Angeli.
Radiotelevisione in festa.
Raccontare la tradizione sui media
Letizia Bindi
L’intervento che presento oggi rappresenta un tassello del lavoro che da qualche anno sto conducendo su una sezione particolare dell’Archivio multimediale della RAI, quella cioè dedicata alla rappresentazione delle tradizioni locali e delle culture popolari italiane sui media e all’attraversamento che le discipline etnoantropologiche hanno compiuto all’interno della produzione mediatica dal dopoguerra in poi.
A partire dalla metà degli anni Novanta, come sappiamo, è cresciuta visibilmente anche nell’azienda la consapevolezza che l’Archivio multimediale rappresentasse uno straordinario patrimonio storico-culturale e si sono moltiplicate le operazioni di digitalizzazione, facilitazione all’accesso, schedatura nonché le produzioni atte a valorizzare tali archivi1.
Il rischio è che questo sforzo di valorizzazione manchi di un’analisi critica delle strategie di rappresentazione delle culture popolari e che soprattutto non problematizzi a sufficienza il complesso rapporto che viene ad instaurarsi nelle società mediatiche tra culture tradizionali e locali, cultura di massa e cultura d’elite, questione questa su cui hanno riflettuto molto negli ultimi anni alcuni studiosi anglosassoni, come ad esempio Fiske (1988) o Bauman (1992) e intellettuali nostrani come Pier Paolo Pasolini che già nel 1953 interveniva sulle pagine del RadioCorriere con un articolo su Cultura di massa e cultura popolare (1953). Più recentemente sono tornati su questo dibattito, per ciò che concerne l’Italia, Francesco Faeta (1998) e Fabio Dei (2003) e, da un settore di studi non specificamente demoantropologico, un giovane studioso come Franciscu Sedda (2002).
In anni precedenti, e rivolto ad un periodo storico antecedente l’era mediatica, ma ugualmente cruciale per la comprensione dei rapporti tra cultura d’elite, culture tradizionali e cultura di massa e per l’importanza che le rappresentazioni intellettuali del ‘folklore’ hanno avuto – e, aggiungerei, possono avere anche oggi – nella gestione delle strategie identitarie a livello locale, resta invece fondamentale il contributo che Luigi Lombardi Satriani ha dato con un testo come Il silenzio, la memoria e lo sguardo (1979).
Gli oggetti mediatici hanno d’altronde occupato anche la riflessione accademica nordamericana più recente che pure ha spostato l’asse dell’interesse sui media gestiti e pensati da membri di comunità etniche native o marginali rispetto ai grandi circuiti della ‘cultura pubblica’, come forma di riscatto e nuova assertività identitaria, fornendo un’interessante apertura allo studio dei materiali anche italiani in una chiave rinnovata di analisi, come pratiche, cioè, di rappresentazione delle identità di cui, a mio giudizio, può molto beneficiare sia la storia dei nostri studi sia l’approfondimento delle strategie di patrimonializzazione oggi sempre più cruciali sul piano della circolazione pubblica dei contenuti afferenti alle culture locali (Ginsburg, Abu-Lughod e Larkin (a cura di), 2003), ma anche testi più strettamente concentrati sulle modalità di indagine etnografica attraverso l’impiego delle nuove tecnologie audiovisuali (Jules-Rosette e Bellman, 1977).
Da qualche anno perciò ho iniziato ad analizzare con maggiore sistematicità gli archivi multimediali della RAI al fine sia di analizzarne il contenuto di interesse specificamente demoantropologico (trasmissioni curate o ideate da colleghi, documentari etnografici realizzali grazie al contributo della televisione italiana o realizzati autonomamente e dunque trasmessi dalla RAI, programmi a interesse ‘folklorico’ o ‘turistico’), ma anche ad interrogarmi sul modo in cui il ‘folklore’ e la categoria di ‘folklore’ attraversi tali archivi e come la programmazione realizzata a partire da questi patrimoni audiovisivi consenta di comprendere meglio sia il contesto culturale in cui essi venivano raccolti e quindi trasformati in prodotto mediatico (carteggi, programmazione, consulenze, finanziamenti, in una parola forse desueta il livello strutturale della produzione mediatica di programmi e notizie a interesse locale e tradizionale) sia gli specifici prodotti risultanti da questo circuito culturale e decisionale (analisi dei contenuti, delle modalità estetiche e semiotiche di costruzione dei messaggi, delle notizie e dei programmi, uso e abuso dei testi a commento delle immagini, ecc.).
Il lavoro che ne risulta è complesso e talora difficoltoso sia per la lacunosità – casuale talora, altre volte meno – degli archivi cartacei dell’azienda, sia per una relativa scarsità di testimonianze su questi problemi, sia infine per la complessità culturale e politica degli ‘oggetti’/prodotti analizzati.
Una cosa è certa però: la categoria ‘folklore’ conta più di 8000 voci nell’archivio multimediale della RAI, viene per lo più impiegata per indicare tradizioni locali italiane, è guarnita quasi sempre di attributi regionali (folklore campano, folklore toscano, ecc.), esclude l’impiego di altre chiavi di catalogazione come demologico, popolare, campanile o derivati, si sovrappone, ma solo raramente a ‘tradizione’, nella particolare accezione di ‘tradizioni popolari’, comunque assai meno rappresentato del primo in questa filza di termini.
La prima schedatura risale alla metà degli anni Settanta e risente probabilmente dell’ondata revivalistica che dette origine, in quegli anni, a un interesse diffuso, anche se spesso non specialistico, verso il mondo rurale, il Meridione, le tradizioni locali, le culture popolari. In una parola la stagione del ‘folk’ come grande prodotto di massa, progressivo o regressivo che lo si intendesse.
Si tratta di materiali compositi, per genere e stili di ripresa da cui ho scelto oggi di presentare la traccia audiovisuale presente nell’Archivio Storico della RAI di una sola, particolare festa, particolarmente adatta però a mostrare, a mio giudizio, sia le possibilità euristiche di un’indagine di questo genere sia a suggerire alcune riflessioni sul modo in cui la tradizione è stata costruita, manipolata e gestita dai poteri mediatici, ma anche da un’estetica comunicativa che, a partire dagli anni Cinquanta in poi, privilegia linguaggi omogenei e tende a fornire una precisa idea del Paese inteso come ‘comunità immaginata’ rispetto alla diversità interna della realtà geografica e culturale italiana2.
La festa è quella di Piedigrotta, ‘oggetto’ già di per sé complesso, non foss’altro per la sovrapposizione al suo interno di elementi di culto tradizionale e ufficiale e per la relativamente precoce – a partire già dalla fine dell’Ottocento – sovrapposizione della festa tradizionale con la competizione canora che si può a buon diritto considerare uno dei massimi antecedenti dello spettacolo nazional-popolare, ‘alla Sanremo’, così come noi lo conosciamo oggi.
Già lo stesso Granisci d’altronde parlava di Piedigrotta come ‘festa’ fiaccata sul piano delle tradizioni e divenuta usanza massificata e strapaesana e la condannava come ‘spettacolo’ regressivo e ‘repressivo’ della cultura popolare, come espressione di provincialismo folkloristico3.
Ai suoi tempi tuttavia di Piedigrotta già si parlava come di una competizione locale che per l’importanza ricoperta dalla tradizione della canzone napoletana in Italia e nel mondo – nobilitata tra l’altro dalla presenza di romanze attribuite a nomi altisonanti della musica colta e operistica (Donizzetti ad esempio) – assurgeva ad una notorietà impensabile per le feste tradizionali presenti nel resto del Paese, sbalzandola di diritto agli onori delle cronache nazionali.
Piedigrotta ci appare, dunque, già agli inizi del secolo come un prodotto ibrido, capace di richiamare un pubblico non solo popolare, ma colto, non solo locale, ma nazionale e di incuriosire persino gli intellettuali d’avanguardia come Mannelli, ma anche Capuana, Scarfoglio, Serao, Viviani.
Era evidente che una festa che fin dalla fine dell’Ottocento si era progressivamente trasformata sovrapponendo all’impianto originario, di tipo tradizionale, agricolo quello metropolitano, nazionale e sovranazionale dell’industria del turismo e dello spettacolo, dell’intrattenimento e della vera e propria produzione mediatica – editoria discografica, periodici, e quindi anche film, sin dai primi anni Venti, e quindi dirette radiofoniche, non appena ve ne fu la possibilità, ovvero negli anni Trenta – divenisse un ‘oggetto mediatico’ eccellente per la moderna comunicazione radiotelevisiva che all’indomani della guerra si incaricò di raccontare le realtà diverse del Paese e di elevare a ‘prodotti nazionali’ quegli aspetti delle culture locali che sembravano maggiormente adatti a rappresentare la tipicità della cultura italiana, nonché una certa immagine del Meridione d’Italia come luogo di amenità spensierate, elemento questo, specie per l’area napoletana, destinato a rimanere particolarmente persistente nell’iconografia cinematografica e nel bozzettismo letterario fino ad anni recenti.
Stretta entro la categoria regionalistica di ‘folklore campano’ Piedigrotta è infatti massicciamente rappresentata negli archivi della RAI fin dagli anni Cinquanta, in trasmissioni sia radiofoniche che televisive e in prodotti destinati sin al pubblico colto che ai notiziari generalisti. Accanto a questi documenti RAI si aggiungono tra l’altro una rilevante quantità di filmati – compresi tra il 1936 e il 1962 – raccolti dall’Istituto Luce in veri e propri piccoli documentati da trasmettere nella ben nota Settimana Incom. un genere di intrattenimento cinematografico – piccoli cinegiornali – che anticipò, per molti versi, i rotocalchi di costume della successiva programmazione televisiva e giornalistica.
Già a partire dalla metà dell’Ottocento, d’altronde, e con un’intensificazione progressiva, la festa aveva sempre più perso l’aspetto di una ricorrenza del calendario agrario tradizionale, intessuto di culti pagani e di reminiscenze borboniche – come ad esempio la parata militare istituita a partire dal Seicento che celebrava la vittoria dei Borboni a Napoli e che culminava nella processione del re al santuario -, per divenire uno spettacolo di massa intrecciato con le vicende dell’industria culturale regionale e persino nazionale, soprattutto grazie alla competizione canora che caratterizzava le giornate precedenti le celebrazioni dell’8 Settembre, costituendosi come vera e propria icona della ‘napoletanità’ nel mondo. Al tempo stesso però la festa era divenuta un vero e proprio oggetto ‘eccellente’ per le avanguardie: le sue luminare, i suoi suoni popolareschi ottenuti con strumenti meccanici di percussione o a fiato come il putipù, lo Scetavaiasse e il Triccabballacche, che erano stati cantati dalla poesia futurista, accanto all’atmosfera, anch’essa ‘elettrica’ dei cafè-chantants napoletani, come esempio della mistura di antico e moderno, affascinavano i poeti e gli artisti degli anni Dieci e Venti. Accanto alle luminare erano apparsi infatti presto, in galleria Umberto, i cinescopi e i grammofoni Edison, che permettevano di riascoltare e riprodurre le melodie di successo della competizione canora un tempo nata in contesto esclusivamente tradizionale come canto a contrasto cerimoniale nella grotta di Pozzuoli.
Di tutto questo risente l’icona mediatica della festa così come ci viene restituita dai documenti dell’Archivio RAI e dell’Istituto Luce.
Rumori di folla, fascino per la presa diretta – specie negli anni Cinquanta – elemento questo che si deve probabilmente mettere in relazione alla recente e avvincente scoperta da parte dei giornalisti così come degli etnografi delle potenzialità messe a disposizione dalle nuove tecniche di riproduzione e registrazione4. Carri allegorici, luminare e fuochi d’artificio.
La festa in televisione si spettacolarizza ulteriormente. Diviene bagno di ‘gente’, ritiene ed esalta soprattutto gli aspetti eclatanti dell’evento folklorico. essenzializza il racconto delle celebrazioni.
Non si tratta di semplice curiosità antiquaria, né solo di nostalgia rispetto a ciò che si sta perdendo, per quanto molti dei servizi presentino testi fuori campo di questo tono, enunciati sia da speakers anonimi che da ‘testimoni nativi’: «era meglio prima…, Piedigrotta non è più la stessa…», e simili adagi… Lo spettacolo della festa sembra essere la condizione essenziale della sua immissione nel circuito comunicativo e nazionale, la sua emergenza come eccezionaiità e intenso esempio di ‘colore’ locale sembra rappresentare la condizione primaria del suo salvataggio nella forma audiovisuale del servizio o del filmato, della notizia insomma.
La festa in televisione, inoltre, diviene fatto ‘tipico’, evento reiterato e sempre uguale a se stesso. Fa parte del suo essere oggetto ‘buono da filmare’ il fatto che essa rappresenti una costante, una ricorrenza. Se ne esaltano gli elementi di continuità, si inseriscono nei servizi spezzoni di repertorio presi dall’archivio degli anni e dei decenni precedenti, si articola un rappor-lo tra passato e presente folklorico nell’ordine dell’identico assai più che della trasformazione e del cambiamento.
Se ne ricordano al contempo gli antichi splendori, l’intreccio, cui facevo riferimento in precedenza con la tradizione colta – prestigio della canzone napoletana, attenzione da parte di personaggi illustri -, in una parola la si nobilita attraverso l’immissione nei circuiti della cultura ‘alta’ attribuendo con ciò implicitamente valore deteriore all’esclusivo circuito popolare su cui si muovono altre festività locali, anche campane.
Non è inoltre irrilevante che essa faccia parte di quella sottocategoria regionale – il ‘folklore campano’ per l’appunto – che conta moltissimi documenti presenti nell’archivio. Sembra infatti esserci una sorta di predilezione per questa specifica area italiana in materia di rappresentazioni mediatiche del folklore: moltissimi servizi sulla festa di San Gennaro, su Guardiasanframondi, sulla Madonna dell’Arco, sulla sceneggiata napoletana, su Pulcinella e le altre maschere tradizionali, sulla smorfia e il gioco del lotto.
In un intenso documentario radiofonico del 1962. realizzato da Mario Pogliotti e Pietro Santo Stefano – insignito tra l’altro per quell’anno del Premio Italia – dall’evocativo titolo di Ascolto di una città, le melodie dei posteggiatori si mescolano alle grida reiterate dei mercati, alle preghiere delle donne durante le celebrazioni, agli scoppi dei ‘botti’, dei giochi pirotecnici, al rumore della lava che scende dal Vesuvio, di cui uno dei testimoni ‘nativi’ dice di conoscere ogni sfumatura, perché lui, ‘la voce del Vesuvio l’ha studiata’ e ne può fare un ‘discorso scientifico’. Il registro della sonorità, sia essa modulare e melodica – come nelle canzoni della competizione piedigrottana – o travolgente e naturalistica – come la voce del vulcano che si mescola con i suoni della campagna circostante, ma anche con le sonorità artigiane dei vicoli cittadini -, sembra comunque essere una costante della rappresentazione del folklore popolare campano e in particolare delle sue occorrenze festive, al punto che in un documentario, di molti anni successivo, del 1992 per Bellitalia, il documentario radiofonico del 1962 viene riproposto come colonna sonora del montaggio visivo dei siti e delle cerimonie, degli usi quotidiani e della gestualità diffusa di una città che finendo per inglobare la propria campagna, ne ha assorbito e fatto propri gli stilemi comunicativi e i registri espressivi, primo tra tutti quello della canzone, pur modellandolo ed adattandolo alle modalità della fruizione metropolitana necessariamente più spettacolare e massificata.
Napoli e la Campania comunque sembrano rappresentare una specie di oggetto privilegiato della divulgazione mediatica in materia di tradizioni locali e contribuiscono a quella tipizzazione del folklore che vuole il mondo popolare allegro e spensierato, canterino e ballerino, affascinato dai fuochi e dalle luci, ‘stuporoso’, in qualche modo ‘bambino’. In questo senso tra l’altro la presenza tradizionale dei bambini nel culto popolare di Piedigrotta – bambini mascherati, bambini a frotte che inseguono Pulcinella, bambini inquadrati mentre ammirano stupiti le luci delle luminarie e dei fuochi – aiutava ulteriormente la tipizzazione in chiave fiabesca della festa. In un servizio del 1962, ad esempio, lo speaker viene ripreso letteralmente immerso in una folla di bambini che si stanno intrattenendo con un attore vestito da Pulcinella; un altro servizio, del 1969, inizia con le riprese di un laboratorio di sartoria, modesto e popolare, in cui si stanno confezionando gli abiti per la mascherata e la telecamera indulge in modo prepotente sulla vestizione e le espressioni rapite dei bambini che escono dal laboratorio agghindati per la festa.
Livelli diversi della narrazione, comunque, si sovrappongono. Lo speaker propone una sorta di discorso normativo che introduce alla ricorrenza festiva e poi ‘gira il microfono’ alla folla di bambini chiedendo loro di commentare le cele
brazioni tradizionali che si stanno aprendo, con il risultato ovvio di veder ripercorso l’intero repertorio di ‘mirabilia’ cui l’iconografia televisiva intendeva far riferimento: luci, fuochi, carri in notturna, gente, bancarelle, canti…
La Piedigrotta televisiva è un luogo pirotecnico e ‘strapaesano’, in cui la folla e indistinta – seppure, a partire dalla fine degli anni sessanta, appaiano nei filmati di repertorio anche brevi interviste alla ‘gente’ del luogo. Le uniche voci e facce che ricevono definizione e nominazione sono quelle di intellettuali, scrittori e rappresentanti delle istituzioni chiamati a commentare e suggellare le immagini prese ‘in piazza’. E’ così che appaiono attori e cantanti, autorità pubbliche, come il sindaco Lauro nel servizio dell’Istituto Luce del 1956 dal significativo titolo di Napoli che non se ne va. Nella città più festosa del mondo, la festa più bella del mondo che è poi anche la frase con cui si apre il breve servizio nel quale, per mettere in evidenza la partecipazione generalizzata alle celebrazioni settembrine, l’autore del servizio ci teneva a mettere in rilievo che alla festa partecipavano tutti, ma proprio tutti, “dal primo cittadino (inquadratura) all’ultimo guappo (inquadratura)”: dialettica alto-basso, istituzionale/eversivo mirante ad accentuare l’aspetto non conflittuale, ecumenico della festa come luogo di reintegrazione e ricomposizione della comunità, ma anche, proprio per questo di apertura della comunità, con le sue bellezze e le sue risorse tradizionali, canore, spettacolari al resto del mondo.
Il montaggio di questo particolare documentario – inserito nella Settimana Incom del 15/9/1956 – si faceva sul finire particolarmente concitato: immagini sfuocate, smorfie sorridenti e talora sguaiate della folla che partecipava alle celebrazioni, luci, fuochi, lava, fumo del Vesuvio e frasi a commento del tipo ‘il luminescente sangue torna a scorrere nelle vene della Napoli com’era; segno questo di una percezione già acuta – com’era comprensibile già dal titolo – della progressiva usura della tradizione in favore di uno spettacolo forse più massificato e, come viene detto da un altro speaker RAI nel servizio del 1969, di una festa che poco a poco ha visto il ‘popolino’ trasformarsi sempre più ‘da protagonista in spettatore’ della festa.
Una festa sempre più spettacolare e industrializzata, persino – sono di questi stessi anni gli inserimenti nel montaggio dei documentari e dei servizi di moltissime immagini che tendono a documentare la ‘fabbrica della festa’: impalcature gigantesche per le luminarie, preparazione dei fuochi d’artificio, costruzione di carri allegorici sempre più sfarzosi e sempre più lontani, anche tematicamente, dai contenuti rurali dei carri ‘pacchiani’ che originariamente accompagnavano la processione verso la Chiesa della Madonna con il loro carico colorato e rumoroso di contadini, bambini, animali e vettovaglie. A proposito di quest’ultima annotazione si può forse notare che la penetrazione progressiva dei mezzi di comunicazione di massa – nel 69 ormai già più che decennale -, specie della televisione, nella fruizione comunicativa quotidiana aveva di certo pesantemente contribuito a questa progressiva trasformazione della popolazione :da protagonista in spettatrice e che questa probabilmente risulta essere, più generalmente, una delle conseguenze più radicali dell’entrata delle comunicazioni di massa nel vissuto quotidiano delle comunità e delle singole famiglie. La festa tradizionale infatti richiede, e richiedeva, un forte grado di protagonismo individuale e collettivo, rappresenta per certi versi un modo della comunità per mettere in scena se stessa, per rappresentarsi e farsi personaggio di una performance, mentre la sua trasformazione in prodotto mediatico – quanto più industrializzato e ‘turistizzato’ tanto più eterodiretto rispetto al cuore della comunità – la trasforma in oggetto di visione e per ciò stesso la aliena dalla comunità, che ne resta, almeno in parte, spossessata.
Le voci del popolo restano anonime, intervistate in mezzo al resto della folla, nel rumore inaugurando così un vero e proprio stilema della nostra televisione, cioè quello dell’intervista ‘all’uomo della strada’ come rappresentante anonimo, tipico quanto subalterno di una realtà popolare e tradizionale confezionata, raccontata e prodotta – in termini sia intellettuali che industriali ormai – dai membri della classe dirigente. Si brucia nel giro di un decennio – i Cinquanta per l’appunto – ogni velleità di ‘neorealismo radiofonico’ e si imbocca, a partire dai Sessanta, un’idea di ‘popolare’ unitaria in cui il campanile, i campanili si fanno bozzetto e macchietta e divengono funzionali allo sketch comico o al gioco a squadre (Bindi, 2002).
L’Italia, quella vera – sembrano suggerire questi materiali – è ‘una e indivisibile’ e ride e gioca con le sue diversità interne perché non rappresentano più un problema, anche se in quegli stessi anni il cinema e una certa comunicazione d’elite provvedono a far conoscere il dramma dell’emigrazione interna ed esterna, dal Sud verso il Nord, dalle campagne verso le città (Rocco e i suoi fratelli, Accattone, ecc.).
Loro, i protagonisti muti di queste vicende, devono poter credere che il Paese è fatto e che la nuova ‘piazza’ multimediale5 è capace abbastanza per tenerli insieme tutti.
Qui siamo ancora dinanzi a un’idea del folklore come divertissement, che risente anche di paradigmi esotizzanti, orientalizzanti – specie, è ovvio, nei servizi dedicati a feste e tradizioni del Meridione d’Italia6.
È ovvio dunque che Piedigrotta resti un’icona, traccia del suo passato arcaico e di quello meno arcaico, ma altrettanto ‘tipico’ della competizione canora e comunque sempre grande spettacolo, curiosità locale che ‘diverte’ e rende sapido il messaggio audiovisivo con immagini rassicuranti e decongestionate, lontane da ogni accenno di resistenza e problematicità interne allo spazio del ‘folklore’.
Chi voglia indagare in profondità i contesti etnografici di produzione e programmazione radiotelevisiva in materia di tradizioni e di folklore dovrà documentarsi sulle dinamiche aziendali, le strategie politiche e culturali che hanno presieduto alle scelte di programmazione in tal senso nei nostri notiziari e rotocalchi, e che hanno contribuito a comporre, nei decenni, una sorta di ‘calendario immaginario del folklore’ fatto di ‘scenette con data’. Il Paese, infatti, è cambiato e cambia, ma porta con sé memorie del passato, le riformula e le riadatta alle nuove modalità del vivere, alle esigenze della società del consumo, ai tempi e ai ritmi della produzione industriale, perché solo così riesce a immaginarsi e pensarsi senza totalmente ‘spaesarsi’: tema caro questo all’ultima, vibrante riflessione demartiniana sia sul piano delle rappresentazioni individuali che di quelle collettive7.
Una festa come Piedigrotta continua dunque a occupare tanto a lungo gli schermi televisivi per il suo carico di spettacolarità, ma anche perché contiene in sé tutte le contraddizioni della complessa trasformazione che il nostro Paese ha dovuto affrontare dal dopoguerra ad oggi. Si fa festa ‘in icona’, capace di soddisfare il progetto nazionale e mediatico di una cultura unitaria e popolare che se da un lato propone una rappresentazione modernista del Paese, al tempo stesso intende occultare le molte difficoltà della transizione da un’economia arretrata e rurale ad un’economia di mercato. Quello stesso progetto nazionale che intende superare gli scogli primari per l’unità culturale del Paese, come l’analfabetismo o l’asimmetria economica e sociale del Sud rispetto al Nord, nelle forme però spesso esclusivamente virtuali del messaggio mediatico.
Il Sud tradizionale, pro-televisivo rimane ancora a lungo quello canoro e scintillante dei fuochi dì Piedigrotta e di Te voglio bene assaje, magari accompagnati da un piatto tipico e da un buon vino campano.
NOTE
1 Si ricorderà in proposito l’intervento di Barbara Scaramucci, Direttrice delle Teche RAI, al Convegno AISEA dedicato ai Patrimoni Demoetnoantropologici, ma anche le molte trasmissioni di storia che negli ultimi anni sono state trasmesse dai canali RAI: La storia in prima serata, La grande storia. La Superstorìa, ecc.
2La nozione di ‘comunità immaginate’ proviene, come è ovvio, dal testo omonimo di B. Anderson (1998).
3 La citazione di A. Granisci è tratta da Idem (1977), p. 95. Scrive testualmente Gramsci: «Piedigrotta. In un articolo sul “Lavoro” (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essiccate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. […] La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). Non sì ride più dì cuore: si sogghigna e si da dell’arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essiccata, è stata essiccata perché era diventata “ufficiale” e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio)».
4 Si pensi a quanto questa novità rappresentò uno spartiacque anche nella realizzazione delle ricerche etnografiche di de Martino, Carpitella, Lomax. Cirese ed altri nel corso dei decenni successivi. Su questo ho avuto modo di riflettere in E. de Martino (20o3), pp. 137-161.
5 Isneghi M. (1998).
6 E’ anche grazie, d’altronde, alla riflessione critica recente da parte di studiosi stranieri delle culture tradizionali del Mezzogiorno d’Italia che oggi siamo in grado di riconoscere in alcune modalità di rappresentazione colta o ufficiale, nazionale del Mezzogiorno tracce di un ‘orientalismo interno’ che probabilmente attraversa la nostra letteratura e la nostra comunicazione élitaria da molto più tempo, come ci ricordava qualche anno fa, in un bell’intervento al Convegno AISEA dedicato al Patrimonio, Marino Mola parlando della Napoli popolare o popolareggiante dei romanzi della Serao e di altri scrittori. Cfr. Schneider J. e P. (1974; 1976).
7 De Martino E. (1977).
APPENDICE
Su alcune pratiche attuali della festa in ambito profano:
il caso delle sagre gastronomiche laziali
Ernesto DI RENZO
Premessa
Al viaggiatore che, in un qualunque fine-settimana estivo, si trovasse a transitare nelle piazze principali di Orvinio, Picinisco, Rocca di Papa, Vallerano, Campodimele o di una qualsiasi altra località del Lazio rurale, si prospetterebbe allo sguardo una realtà dai contorni così identificati: strade interdette al traffico in prossimità di aree rese temporaneamente pedonali; autovetture in sosta continuata lungo i percorsi di accesso ai centri storici; atmosfera di festa e di effervescenza collettiva vivacizzata da musiche di accento popolare; piazze e corsi gremiti da animate tavolate indugianti nel consumo di castagne, o polenta, o zuppe, o cocomero, o vino; padiglioni fugacemente allestiti dove solerti abitanti del luogo, divenuti per l’occasione cuochi, camerieri, vivandieri, dispensano senza sosta cibi e bevande a comitive di forestieri in procinto del proprio turno di degustazione. Tutto questo, ed altro ancora, sono le sagre gastronomiche, i rinomati appuntamenti culinari dei weekend fuori-porta che spingono stuoli di gitanti a calcare le strade dei borghi di provincia con lo scopo di assaporare piatti e ricette di dichiarata tradizione locale.
Eredi probabilmente delle antiche cerimonie con le quali in passato si usava accompagnare la consacrazione di edifici di culto mediante fiere, mercati e consumo collettivo di cibo, le sagre rappresentano oggi uno degli eventi ludico-popolari di maggiore consenso partecipazionistico cui aderiscono numerosi abitudinari della cosiddetta vacanza “mordi e fuggi”. Rappresentano, inoltre, una delle modalità più ricorrenti con cui la società urbana si rapporta al mondo delle tradizioni folcloriche, fruendone quella che ritiene essere la sua componente culturale più autentica e rappresentativa.
Le presenti riflessioni, nel quadro di una prospettiva di ricerca di impostazione socio-antropologica, si propongono di porre in luce alcuni elementi di conoscenza volti a restituire spazi di significatività all’odierno fenomeno delle sagre laziali, cogliendone le eventuali relazioni che intercorrono con il tempo calendariale, l’ambiente, le società e le economie locali al cui interno risultano funzionalmente collegate. Nello stesso tempo, si prefigge di far trapelare la contestualizzazione rurale e periferica del loro svolgimento, esplicitandone la fondamentale assenza dagli schemi comportamentali in uso negli ambienti cittadini. Ciò non di meno, posta l’entità della domanda turistica che sono in grado di attivare, si prefiggono di mettere in risalto il modo in cui le sagre giochino un ruolo determinante nella promozione e nella valorizzazione delle aree più marginali della regione, facendo spesso da volano ad economie devitalizzate dall’accentramento produttivo circoscritto a ben limitati distretti del territorio laziale.
Tutto ciò tenendo debitamente conto delle implicazioni che questi eventi esprimono al cospetto dei recenti dibattiti scientifici scaturiti attorno ai temi del folclore, del suo senso attuale e delle sue possibili strumentalizzazioni commerciali messe in atto dai modelli di cultura dominante. Modelli che, nell’esaltazione mass-mediatica dei valori tradizionalistici, e nella riproposizione di abusati clichè romantico-ottocenteschi, conducono spesso ad una distorsione prospettica del mondo rurale/contadino: esaltandone i soli aspetti ludico-esteriori e celandone le numerose problematicità sociali ed economiche.
Breve profilo socio-antropologico delle sagre
Nel Lazio, così come nell’intera geografia regionale italiana, le sagre gastronomiche costituiscono un fenomeno collettivo di recente affermazione. Un fenomeno complesso e sotto molti punti di vista controverso che, non potendosi sbrigativamente riguardare come un succedaneo della festa “paesana” consueta, occupa un ruolo di primissimo piano nelle moderne pratiche di fruizione dell’universo folclorico. Sebbene alcune vantino uno spessore storico dotato di una certa significatività, la quasi totalità di esse colloca la propria nascita in epoche cronologiche del tutto recenti. Al loro fortunato radicamento, inziato a partire dagli anni ‘70 dello scorso secolo e proseguito con ritmi esponenziali nei decenni successivi, ha contribuito una molteplicità di fattori tra cui spiccano con evidenza:
- il superamento di una economia agraria di sussistenza volta essenzialmente all’autoproduzione e all’autoconsumo familiare;
- la derivata maggiore disponibilità di risorse alimentari da destinare alla redistribuzione collettiva e alla vendita;
- la più ampia flessibilità lavorativa che si accompagna alla possibilità di usufruire di maggiore tempo libero da destinare al divertimento e allo svago;
- la generalizzata e diffusa disponibilità di mezzi di spostamento ad uso privato e personale;
- la più rilevante utilizzabilità di denaro da assegnare allo svolgimento di bisogni di non primaria necessità;
- il rinnovato interesse, iniziato a partire dalla fine degli anni ‘60 anni, verso il mondo del passato e il conseguente affermarsi di revivalismi culturali tendenti a contrastare l’egemonia dei modelli sociali urbanocentrici;
- la conseguente esaltazione dei localismi identitari a scapito dei globalismi alienanti e deculturativi; una esaltazione che, tradotta nei termini del discorso alimentare, ha prodotto una rivalutazione (mass-mediatica) delle gastronomie tradizionali ed etnico-regionali a scapito di quelle seriali, industriali, macdonaldizzate.
Alla luce di tali presupposti, le sagre si configurano come realtà ibride e multiformi situate a cavallo tra l’istituto della festa popolare tradizionale (in specie le ricorrenze patronali) e il fenomeno della mini-imprenditorialità a carattere “dilettantesco” e – in prevalenza – non lucrativo. Realtà che, nella riproposizione di scenari e atmosfere tipiche della “civiltà” contadina, perseguono essenzialmente (ma non solo) l’accaparramento dei flussi turistico-vacanzieri specie di provenienza extraterritoriale ed urbana. Obiettivo, questo, il cui raggiungimento viene spesso ricercato mediante un business che non sempre tiene conto della coerenza con le tradizioni gastronomiche autoctone: come dimostrano le diffuse sagre della birra, le generiche sagre della bruschetta o le numerose degustazioni di prodotti agroalimentari “fuori-stagione” e “fuori-territorio” che attualmente vengono allestite in differenti luoghi della regione.
Sagre e territorio a confronto: alcuni prospetti statistico-fisionomici.
La casistica delle sagre laziali prospetta un ampio ventaglio di offerta alimentare che riflette solo in parte le diversità produttive degli ambienti fisici e le tradizioni gastronomiche del passato storico. Quest’ultimo, contrassegnato da una fondamentale semplicità di risorse e da un’altrettanta semplicità di ricette adottate nel prepararle, si rivela segnato da una profonda “crisi della memoria” cronologicamente situabile a cavallo tra gli anni ’60-’70 dello scorso secolo:
da quel momento, infatti, i piatti che, per lunghissimo tempo, avevano costituito l’alimentazione base di gran parte della popolazione, scompaiono progressivamente dalla cucina quotidiana, fino ad essere, nella maggior parte dei casi, relegati ad ambiti o ricorrenze particolari […] all’interno di cui confluisca ancora questa cucina, che viene sentita come retaggio e patrimonio del passato , della quale si conserva il ricordo ma che già da tempo ha smesso di far parte dell’alimentazione quotidiana. Non va inoltre sottovalutato il fatto che, a partire appunto dagli anni ’60, il numero delle donne lavoratrici sia progressivamente aumentato, fino a costituire un importante cambiamento nelle abitudini familiari e nell’organizzazione della società
A determinare siffatta crisi della memoria collettiva, che secondo Corrado Barberis «non fu soltanto un cambiamento di mestiere ma un ripudio complessivo del passato», hanno agito fattori concomitanti quali:
l’abbandono di massa delle campagne e dei piccoli centri da parte delle nuove generazioni a vantaggio delle grandi città, dove le tradizioni tendono a scomparire più rapidamente, o lo sviluppo e la diffusione dei cibi surgelati, che hanno fortemente modificato le abitudini alimentari, e garantito la disponibilità dei prodotti indipendentemente dalle stagioni e dai territori di produzione.
E sebbene diverse sagre cerchino oggi di contrapporre un deciso argine ai fenomeni di deculturazione alimentare, l’avvenuta modificazione delle abitudini nutrizionali, l’incidenza pervasiva dell’impresa turistica e la globalizzazione dei gusti e dei consumi sembra trovare in molte di esse dei riflessi del tutto significativi.
Nel Lazio, le sagre gastronomiche corrispondono ad una tipologia di eventi difficilmente inventariabili nell’ambito di una classificazione unitaria. Ciò dipende dal fatto che, aldilà di una fisionomia comune che le identifica, costituiscono una realtà caleidoscopica dai tratti dinamici ed eterogenei. Così, mentre alcune chiamano in causa un coordinamento di tipo amministrativo-locale, altre manifestano contrassegni spontanei e popolari. Mentre alcune esigono significativi investimenti economico-finanziari e complessi apparati logistici che ne supportino l’allestimento, altre implicano impianti organizzativi di semplice attuazione alla cui cura attendono comitati appositi di cittadini volenterosi. Mentre alcune trovano svolgimento nel corso delle tradizionali feste patronali, arricchendone il cartellone delle manifestazioni ludico-evasive, altre (la maggioranza) costituiscono eventi “laici” dal carattere concorrenziale-sostitutivo delle feste stesse. Mentre alcune rinviano ad una origine più che decennale altre manifestano una genesi del tutto recente. Mentre alcune perseguono la promozione di un prodotto alimentare o di una ricetta culinaria di carattere tipicamente locale, altre si limitano a proporre l’offerta commerciale di generi gastronomici di più ampio consumo. Inoltre, mentre alcune esprimono un evidente segno di continuità temporale e di fissità calendariale, altre vengono allestite in maniera saltuaria e non necessariamente cadenzata.
Pressochè tutte, invece, aldilà delle singole variabili rilevate, sono accomunate dalla regola di far corrispondere all’offerta di cibo il pagamento di una somma più o meno consistente di denaro da destinarsi ad impieghi di carattere diversificato. Impieghi che possono riguardare sia l’autofinanziamento delle attività statutarie delle associazioni che le allestiscono, sia la realizzazione di opere di pubblica utilità (rifacimento dell’arredo urbano, allestimento di parchi-gioco per bambini, restauro di chiese e palazzi) sia la partecipazione a campagne di raccolta fondi per attività sociali e umanitarie.
Complessivamente nello spazio dell’intera regione risultano in esercizio ben 650 sagre, corrispondenti ad una media di 1,6 eventi per ogni comune. È evidente che si tratta di un valore numerico del tutto teorico che non tiene conto delle differenti situazioni attestate sul territorio; il riscontro operato sul terreno, infatti, ha permesso di documentare casi differenziati di località che organizzano fino cinque o più sagre l’anno e altri che ne organizzano una sola o nessuna.
In generale, l’offerta gastronomica vede il primato assoluto delle castagne: delle 650 sagre segnalate, infatti, ben 41 sono riservate al consumo di questo diffuso frutto autunnale. La ragione di un così elevato valore è da rapportarsi all’ampia estensione boschiva (il coefficiente di boscosità è pari al 27% della superficie totale) che ricopre una parte significativa del territorio collinare e di media-montagna della regione, specie quello situato in corrispondenza dei Monti Cimini, degli Affilani, del Cicolano, della zona tra S. Vito Romano e Bellegra e dei Castelli Romani. Lo scorporamento dei dati permette di assegnare 21 sagre alla provincia di Roma, 9 a quella di Rieti, 5 a quella di Viterbo, 4 a quella di Frosinone e 3 a quella di Latina. Permette inoltre di attribuire lo svolgimento di 21 eventi nel mese di ottobre, 18 in novembre, 2 in dicembre e 1 in gennaio.
All’offerta di castagne fa immediatamente seguito quella della polenta, con 32 casi complessivi rilevati. Si tratta di un piatto tipico soprattutto del periodo ottobre-marzo, con punte massime nei mesi di dicembre e di gennaio (sebbene non manchino due casi in agosto). Condita con aggiunta di ragù di pecora, funghi porcini, spuntature di maiale e salsicce, la polenta è presente in 13 sagre nella provincia di Frosinone, 11 in quella di Roma, 6 in quella di Rieti e 1 in quelle di Latina e di Viterbo.
Alla polenta, fanno immediatamente seguito le bruschette, di cui sono state evidenziate nel totale 31 sagre. Questo alimento a base di pane abbrustolito, olio e aglio strofinato, viene proposto sia nella sua forma più semplice, sia insaporito con tartufo, pomodorini, verdure, legumi e altri generi di condimenti che tuttavia si discostano da una originaria tradizione contadina. Di sagre della bruschetta se ne contano 13 nella provincia di Roma, 7 in quella di Rieti, 5 in quella di Frosinone e 3 nelle province di Viterbo e Latina. A ruota seguono tutti gli altri generi alimentari e culinari, disposti in base ad un ordine decrescente (vedi Tab.1) che vede al fondo della graduatoria l’offerta di piatti tradizionali di matrice strettamente locale: gli abbuoti a Viticuso (FR), il ciavarrotto a Formia (LT), l’acquacotta a San Martino al Cimino (VT), i bucatini all’amatriciana ad Amatrice (RI), la sbroscia a Marta (VT), le sagne di farro con l’aglione ad Orvinio (RI), la zuppa di fagiolo cioncone a Vivaro (RM).
Ragionando in termini di ripartizioni amministrative (vedi Tab.2), il 31% delle sagre trovano attuazione nella provincia di Roma, il 26% in quella di Frosinone, il 20% in quella di Rieti, il 13% in quella di Viterbo, mentre solo il 10% vengono allestite nella provincia di Latina. Tale disparità di valori, se da una parte è da porsi in relazione al variabile numero dei centri che ricadono nel territorio di ogni singola provincia, dall’altra è da riferirsi a precise dinamiche di natura geografica e socio-economica.
Se si tiene invece conto della calendarizzazione delle sagre in rapporto al ciclo dell’anno emerge un evidente divario distributivo che gioca a svantaggio soprattutto dei periodi invernali e primaverili (vedi Tab.3). Dall’analisi dei dati acquisiti risulta come il I° trimestre dell’anno prevede lo svolgimento di 69 sagre, con punta massima di 28 nel mese di gennaio; il II° trimestre ne prevede 91, con valore massimo di 40 nel mese di maggio; il III° trimestre ne prevede complessivamente 370, con un vertice di 290 in agosto; il IV° trimestre, infine, implica lo svolgimento di 85 eventi, di cui 64 nel solo mese di ottobre. Dicembre, febbraio, marzo e aprile risultano invece i mesi che fanno registrare il minor numero di eventi: rispettivamente 24, 17, 12 e 21 .
Simile andamento trova giustificazione in livelli di spiegazione che tengono conto delle condizioni climatiche, delle disponibilità stagionali di molti generi agro-alimentari, nonché dell’andamento dei cicli lavorativi (soprattutto urbani).
In particolare, la notevole flessione di sagre riscontrata nel periodo invernale, oltre a giustificarsi con le avversità metereologiche che incidono notevolmente negli spostamenti sul territorio, e oltre a motivarsi (parzialmente) con la scarsità di primizie, si spiega soprattutto nella particolare relazione che tale periodo intrattiene con il calendario festivo liturgico. Trattandosi infatti dei mesi interessati dalle ricorrenze del Natale, del Carnevale, della Pasqua, i tradizionali eccessi alimentari che di norma li caratterizzano fanno sì che si presti un minore interesse verso ulteriori proposte rinvianti al consumo di cibo .
Al contrario, la forte concentrazione di sagre nel periodo estivo, oltre a spiegarsi con ragioni di segno diametralmente opposto alle precedenti, si collega in maniera determinante alla maggiore flessibilità dei ritmi lavorativi e al diffondersi dei fenomeni vacanzieri. Questi agiscono concretamente sia nell’incoraggiare le gite fuori-porta, sia nell’attivare gli spostamenti turistici nelle aree extra-urbane, sia nel favorire il rientro degli immigrati nei propri paesi di origine: elevando esponenzialmente il numero dei residenti che vi alloggiano e stimolando le molteplici cerimonialtà di accoglienza.
Sempre legata alla sfera dei ritmi lavorativi, e alla conseguente maggiore/minore disponibilità di tempo libero, è la regola che “ammassa” lo svolgimento delle sagre negli spazi dei fine-settimana: soprattutto di sabato e di domenica, raramente di venerdì. Si tratta di una prassi che solo in corrispondenza del periodo luglio-agosto sembra conoscere significative attenuazioni, posta l’esigenza degli organizzatori di evitare penalizzanti sovrapposizioni tra eventi analoghi allestiti in paesi geograficamente limitrofi.
Dal passato all’oggi: casi esemplificativi di sagre laziali
La sagre, nella loro accezione di manifestazioni popolari legate al consumo collettivo (e a pagamento) di cibi e bevande, costituiscono dei fenomeni di recente affermazione nel panorama geografico del Lazio rurale e, più in generale di gran parte del territorio nazionale. Fenomeni che, se nella migliore delle ipotesi rinviano le radici al secolo di storia, nella prevalenza dei casi situano le proprie origini negli anni del “miracolo italiano”. Tuttavia, è soprattutto nell’ultimo trentennio che si è assistito ad una loro più incisiva proliferazione sotto la spinta congiunta dei vari impulsi sociali, culturali ed economici riferiti in inizio di esposizione.
Tra le centinaia di eventi gastronomici attualmente presenti nelle piazze delle cinque province, la sagra dell’uva di Marino si segnala certamente come una tra le più longeve e fortemente radicate nell’immaginario collettivo. Frequentata ogni anno da decine di migliaia di turisti provenienti da tutta la regione, e dalle aree immediatamente adiacenti, questa manifestazione situa la sua nascita nell’epoca del Ventennio fascista e rivela una strettissima aderenza con gli assetti economico-produttivi del territorio, vocazionalmente designato alla coltivazione di uva da vino. Al suo allestimento concorrono diversi soggetti pubblici e privati che ne hanno assunto la gestione diretta, contraddicendo il modello organizzativo di impronta popolare che altrove rappresenta la matrice distintiva di questa tipologia di fenomeni. Del resto non potrebbe essere altrimenti, se si considera la mole delle risorse logistiche e finanziarie messe in campo per gestire la massiccia affluenza di pubblico, nonché il notevole investimento in immagine che comune e cittadinanza si attendono di ricavare dall’esito positivo della festa.
La sagra marinese, oltre a connotarsi come una delle più antiche del Lazio, si segnala anche per la sua netta apertura al business turistico che fin dall’inizio ne ha improntato la nascita. Istituita il 4 ottobre 1925 da Ercole Pellini in concomitanza delle celebrazioni patronali in onore della Madonna del SS.mo Rosario, il suo scopo originario è stato essenzialmente quello di promuovere «l’immagine di Marino e dei suoi prodotti vitivinicoli […] tenendo conto dei servizi anche culturali che la città poteva offrire nel suo insieme [al] flusso di gitanti domenicali della capitale». Al riguardo, il modello a cui il poeta romano di origini marinesi si è voluto direttamente ispirare sono state le “Feste Castromenie”, precedenti manifestazioni popolari concepite “a tavolino” con l’obiettivo «di richiamare turisti da Roma e dintorni al fine di favorire il commercio e la vendita del vino». Tali feste, caratterizzate da sontuosi eventi culturali e di spettacolo, furono allestite nel 1904 per recuperare al crollo dell’economia locale dovuto ad una disastrosa grandinata che aveva distrutto tutto il raccolto gettando nel lastrico l’intera comunità.
Con gli stessi obiettivi di dare impulso turistico al territorio e di sostenere la produzione vitivinicola locale, a partire dal 1973 è stata istituita a Piglio (FR) la sagra dell’uva cesanese. Volta a pubblicizzare le qualità di uno dei vitigni autoctoni più importanti ed apprezzati della regione, la manifestazione ha luogo nel mese di ottobre e si svolge nell’arco di un’intera settimana. Per l’occasione i vari rioni dell’antico borgo stanziato sulle propaggini dei Monti Ernici vengono addobbati con coreografie alludenti alla tramontata “civiltà” contadina e vengono animati dalla presenza di alcuni gruppi canori che si esibiscono lungo le strade affollate di turisti. Inoltre, sempre al fine di ricreare un’atmosfera di vita tradizionale, i proprietari delle cantine invitano gli ospiti a “tracannare” il vino direttamente dalle tipiche “cupelle”, dando così piena soddisfazione a quella ricorrente ansia di folcloristico/pittoresco che una parte significativa di persone desidera attendersi da questo genere di eventi.
La volontà di rilanciare l’immagine di una località un tempo rinomata per il suo turismo balneare, e l’intento di promuovere la tipicità di un prodotto alimentare direttamente connesso all’agricoltura locale, ha portato la città di Ladispoli ad istituire nel 1950 la sagra del carciofo romanesco. Sorta in pieno periodo di boom economico, questa manifestazione si segnala attualmente come uno dei più rinomati appuntamenti fieristico-gastronomici dell’intera regione, nonchè come un valido veicolo pubblicitario con cui la città tirrenica intende dare impulso al proprio sistema produttivo locale: sia agricolo-commerciale che vacanziero. Infatti fin dall’esordio, si legge in un opuscolo di storia locale, «la manifestazione aprì ai cittadini ladispolani le porte dei mercati del nord come Firenze, Padova, Bologna e Verona […] e ebbe anche una importante funzione economica: erano molte infatti le famiglie romane che, avendo una casa, ne anticipavano l’apertura mentre altre venivano in quell’occasione affittando un appartamento o una camera». Capace nelle ultime edizioni di richiamare fino a 300.000 presenze da tutta Italia, la sagra si svolge ogni anno nel mese di aprile e coinvolge numerosi produttori agricoli che vendono in piazza i loro carciofi, crudi e cucinati. La sua preparazione è gestita in maniera verticistica dall’Amministrazione comunale e dalla Pro-Loco cittadina; inoltre, a causa degli importanti sviluppi fatti recentemente registrare dall’evento, lo stesso Ente Regione è entrato in qualità di suo sponsor ufficiale riconoscendogli lo statuto di Fiera regionale.
Di matrice organizzativa più prettamente popolare, ma sempre legata alla valorizzazione commerciale di un prodotto dell’agricoltura locale, è invece la sagra della cicerchia che si svolge a Campodimele, in provincia di Latina. Istituita per la prima volta nel 1981, la manifestazione ha luogo nel mese di luglio e consiste in un rito di piazza nel corso del quale viene distribuito il raro legume, un tempo assai presente nella cucina contadina povera. Il piatto, preparato da un comitato di circa 15 persone poste alle direttive della Pro-Loco, viene servito in zuppa con aggiunta di aglio e pomodoro e viene messo in vendita ad un prezzo convenuto che garantisce anche un bicchiere di vino. Il ricavato, recuperate le spese di gestione, viene reso ogni anno disponibile per finanziare attività di beneficenza o per realizzare opere di pubblica utilità. Gli stessi organizzatori, oltre a promuovere con vigore l’appuntamento gastronomico che richiama alcune migliaia di turisti dai principali centri del circondario e dalla stessa capitale, si sono recentemente impegnati nel fare opera di persuasione presso i coltivatori della zona al fine di incrementare la produzione del legume, attivando con successo il complesso iter legislativo necessario all’ottenimento di un marchio di qualità protetta. Marchio di qualità che, in provincia di Rieti, vede interessato anche un altro importante prodotto dell’agricoltura laziale: il marrone antrodocano.
Alla promozione di questo ricercato frutto si è voluto dedicare una specifica sagra che si tiene nel comune di Antrodoco (RI), alle falde del Monte Terminillo. Come molti altri eventi dello stesso segno che hanno luogo in ottobre nei diversi centri del Lazio montano, la sagra antrodocana si svolge in un clima di intensa spettacolarizzazione volto a richiamare l’attenzione dei turisti che percorrono le strade dei weekend autunnali. Nella circostanza, il comitato organizzatore provvede a distribuire gratuitamente un piccolo cartoccio di castagne che i partecipanti consumano in loco, unitamente all’acquisto di porzioni ulteriori di prodotto messe in vendita dai coltivatori locali alloggiati in appositi stand.
Sempre ad Antrodoco, inoltre, nei mesi di luglio-agosto hanno luogo altri due importanti eventi volti a valorizzare un prodotto gastronomico e una ricetta culinaria di schietta matrice autoctona: la sagra del pecorino e la sagra degli stracci antrodocani. Giunte quest’anno alla quarantaseiesima edizione, entrambe richiamano diverse migliaia di turisti dal Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria; inoltre, accanto alle sagre della polenta, della birra e degli spaghetti alla carbonara contribuiscono a rendere l’offerta gastronomica locale tra le più ricche e diversificate dell’intera regione.
Sulla base di questi limitati esempi, ritenere che le sagre costituiscano un fenomeno commerciale volto fondamentalmente a perseguire il marketing di un territorio o la promozione di prodotto alimentare locale rappresenta tuttavia un evidente errore di prospettiva. Più che un errore di prospettiva, un malinteso fondato su una parzialità di lettura e di analisi. Se si tiene debitamente conto delle differenti tipologie di sagre presenti in tutto il Lazio (vedi Tab.3) è possibile infatti constatare come accanto a situazioni come quelle sopra menzionate ve ne sono numerose altre che manifestano un’assoluta mancanza di referenzialità sia con gli aspetti produttivi del territorio sia con la volontà di ri-valorizzare le tradizioni gastronomiche ad esso relative.
Queste categorie di sagre, tipiche soprattutto delle aree carenti di risorse agro-alimentari autoctone e povere di ricettari culinari tradizionali – ma tipiche anche di molti borghi satelliti di città di medio-grande dimensione – sono spesso concepite con lo scopo di conferire un livello di maggiore visibilità a luoghi (altrimenti) sprovvisti di significative attrattive di tipo paesaggistico, storico-culturale, artistico-architettonico. In relazione a siffatto genere di manifestazioni, gli organizzatori sembrano non preoccuparsi affatto di offrire agli avventori prodotti gastronomici avulsi con le stagioni in corso, o con le caratteristiche ambientali delle zone di svolgimento: e così allestiscono degustazioni di vino nel mese di giugno, della salsiccia e della polenta in quelli di luglio-agosto, del merluzzo in località di montagna, o del porcino e della castagna in zone prive di idonee aree boschive.
In alcune documentate situazioni, le sagre sembrano invece rispondere al prevalente obiettivo di perseguire un business economico legato alla vendita di prodotti di cui il mercato stagionale propone un’alta domanda. È il caso delle estivissime sagre della birra e del cocomero, delle autunnali e recenti sagre del vino novello, delle invernali sagre della polenta, o delle tardo-primaverili sagre delle fave e delle ciliegie. In simili casi, non avendo le Pro-Loco e le amministrazioni comunali interessi diretti a sostenere l’iniziativa, i compiti organizzativi sono assunti in prima persona da gruppi associativi, o da comitati spontanei di cittadini, attratti dalla possibilità di realizzare agevoli ricavi da destinarsi ad attività di tipo diversificato (in genere di beneficio collettivo, più che di lucro privato).
Sagre e feste a confronto: alcune ipotesi conclusive
La moderna ermeneutica antropologica concepisce le sagre gastronomiche come un fenomeno di tradizione inventata; rilevando, nella maggior parte di esse, la mancanza di riscontrabili agganci con preesistenti tradizioni da cui farne derivare l’origine storica.
È vero. Il mondo contadino/pastorale ha storicamente conosciuto molteplici occasioni in rapporto alle quali la distribuzione collettiva di cibo ha assunto un ruolo di primaria importanza. Tuttavia è altrettanto vero che tali situazioni hanno quasi sempre costituito parte integrante di una dimensione cerimoniale strettamente connessa ad eventi di natura religiosa. Tra questi, quelli collegati al calendario liturgico e, soprattutto, alle feste patronali, hanno rappresentato l’ambito più appropriato in cui situare momenti di condivisione alimentare di natura compensatoria ( negare l’indigenza cronica), apotropaica (scongiurare i rischi per il raccolto), propiziatoria (favorire l’abbondanza di risorse alimentari).
Oggi, in un contesto storico-antropologico in cui viene fatto un ampio uso strumentale della cultura popolare, le sagre gastronomiche rappresentano sì un fenomeno di invenzione della tradizione, spesso pensato per creare immagini utili all’industria turistica; tuttavia, viste in base ad una differente angolazione prospettica, costituiscono una realtà dagli attributi assai più complessi e articolati. Costituiscono, cioè, una categoria creativa e utilitaristica di micro-imprenditorialità che, scaturendo dal basso e cavalcando il successo della domanda gastronomica di “genuina fattura”, sembra voler perseguire un triplice, ma non certamente esclusivo, obiettivo:
promuovere in forma auto-vantaggiosa le risorse produttive presenti nelle aree rurali e montane del territorio regionale, spesso compresse o de-vitalizzate dal persistente sottosviluppo che caratterizza i centri più distanti dai principali distretti industriali, commerciali e finanziari;
inserirsi all’interno di circuiti vacanzieri che, per quanto limitati ad un turismo di tipo “mordi e fuggi” e per quanto circoscritto agli spazi del weekend o del periodo estivo, sono tuttavia ritenuti in grado di attivare un indotto vantaggioso per la (ri)valorizzazione culturale ed economica dei centri stessi;
plasmare o ricostruire un’identità di gruppo, disgregata dallo spopolamento degli ambienti rurali, da negoziare nella dialettica locale-globale; dialettica al cui interno spiriti campanilistici, attaccamento alle radici e ripristino delle tradizioni giocano un ruolo primario e nient’affatto trascurabile.
FESTA PATRONALE | SAGRA GASTRONOMICA |
Collocazione in una dimensione religiosa dei suoi significati e dei comportamenti collettivi | Dimensione integralmente laica della sua rappresentazione. Raramente la sagra trova spazio in un contesto celebrativo di tipo festivo-patronale |
Destinazione sociale introflessa: la comunità si autorappresenta e celebra se stessa. | Destinazione sociale estroflessa: la comunità si apre all’esterno per ricavare profitto e visibilità |
Eccesso alimentare come una delle componenti significative finalizzate alla compensazione e alla propizione di abbondanza | Consumo alimentare come principale componente significativa atta a perseguire finalità direttamente remunerative |
Sospensione delle funzioni economiche e produttive | Perseguimento di utilità economica |
Consumo rituale di un menù alimentare diversificato nel quadro di una dimensione domestica e familiare | Consumo voluttuario di un prodotto alimentare esclusivo effettuato in ambito pubblico e collettivo |
Relazione cronologica con i cicli stagionali e il calendario liturgico | Relazione funzionale con i cicli stagionali e il tempo vacanziero |
Rigidità del protocollo cerimoniale | Carenza di prassi rituali di svolgimento |
Questua collettiva e fruizione gratuita dell’evento pubblico | Impegno economico da parte di uno o più soggetti comunitari e fruizione a pagamento dell’evento |
Per tali diretti fini, ad organizzare sagre popolari non attendono grandi multinazionali del cibo o importanti enti pubblici, il cui impegno promozionale in campo alimentare consiste nell’allestire fiere o kermesse di maggiore risonanza mass-mediatica; nè sono professionisti della gastronomia e della ristorazione. A proporre e organizzare sagre sono fondamentalmente comitati spontanei di cittadini raggruppati in circoli culturali e ricreativi, associazioni sportive e di volontariato, centri sociali, parrocchie, confraternite, misericordie, pro-loco.
Alla luce di simili considerazioni appare del tutto riduttivo risolvere il discorso sulle sagre bollandole in termini di eventi costruiti su di una falsa memoria ad uso e consumo dell’industria turistica di massa, come spesso accade di cogliere nelle parole di alcuni specialisti delle materie demo-antropologiche. Certo, nessuno dubiterà mai che esse siano un’invenzione recente delle mode neo-folcloriche e del marketing territoriale; così come nessuno crederà mai che l’autenticità dell’offerta gastronomica sia ovunque e comunque garantita. Ciò, tuttavia, non costituisce ragione sufficiente per destituire il senso dei loro valori funzionali o per ritenerle realtà prive di una matrice identitaria popolare.
Del resto è un dato ormai acquisito che la sola profondità storica non può ritenersi come il parametro sufficiente per decretare l’autenticità di un costume o di una tradizione; così come è altrettanto noto che non tutto ciò che proviene dal passato sia da ritenersi portatore di valori folclorici tradizionali di per sé autentici. Cos’è allora che permette di considerare le sagre del Lazio contemporaneo, soprattutto rurale e periferico, come l’espressione di una cultura popolare propriamente intesa? Le parole di Alberto Cirese ne offrono un attendibile chiarimento:
la popolarità di un fenomeno culturale non dipende dall’origine e dalla forma […] dipende invece dal fatto che quel particolare fenomeno è presente (esclusivamente o almeno in modo prevalente e caratterizzante) in un certo ambito sociale, e non è presente (o è presente in modo non caratterizzante) in altri ambiti sociali che coesistono con i primi. In altre parole […] ciò che in genere fa la «popolarità» di un fatto culturale è la relazione storica di differenza o di contrasto rispetto ad altri fatti culturali coesistenti e compresenti all’interno di uno stesso organismo sociale.