Dicembre 28, 2024

Le memorie di Ranverso e di quel Giovanni Gerso , che come Abate n’ebbe il governo,

Le memorie di Ranverso e di quel Giovanni Gerso , che come Abate n’ebbe il governo,

S. Antonio di Ranverso.

Tra Avigliana e Rivoli, vicino a Rosta, è un luogo che fu chiamato Rivo Inverso, e che oggidì, per le alterazioni che il volgo e il tempo vengono portando ai nomi propri, è detto Ranverso. Quivi nel 1181 due fratelli di santa vita, monaci spedalieri, Giovanni e Pietro, ponevano mano alla costruzione d’una chiesa e di uno spedale per la cura di quegli infelici ch’erano tocchi dall’erpete orribile, denominata fuoco sacro, che in breve consumava le membra che n’erano tocche.

[420]

Quel morbo crudele spesso infieriva nei secoli undecimo e duodecimo, e a Sant’Antonio della Tebaide, come a sperimentato protettore, s’indirizzavano preghiere e voti per esserne liberati: e perciò da quel santo s’intitolarono i monaci spedalieri, istituiti nel 1095 da Gastone, uomo di grande autorità, in Vienna del Delfinato, dove fu trasferito ed avuto in grande onoranza il corpo del santo Abate del deserto. Essi vestivano abito nero, e portavano alla parte sinistra del petto il Tau, segno mistico della potenza, che era una croce senza capo, di panno ceruleo, raccomandato ad un nastro sovra la cappa.

Questi monaci dal loro patrono presero nome di Antoniani, ed il beato Umberto III di Savoia da loro invocato si porse benigno a soccorrerli. Il 27 giugno pertanto del 1181 quel munifico principe concedette ai monaci di Ranverso una grande distesa di terreni, franchigie di pedaggi e dazi, e proprietà di molini e giurisdizione sugli uomini che abitassero ne’ possedimenti degli Antoniani; il che venivali a costituire in grado di baroni. E tali cose donò e concedette a richiesta ed istanza del suo diletto e caro Giovanni, e di Pietro fratello del medesimo.

E chi era questo diletto del beato Umberto? Non poteva essere per certo un uomo volgare, che egli non avrebbe posto l’affetto suo in un dappoco. Conveniva pertanto che quel Giovanni fosse segnalato o per dottrina o per pietà: e vedremo che fu tale per l’un titolo e l’altro.

XXVII.

Le memorie di Ranverso e di quel Giovanni, che n’ebbe il governo, la veduta dell’antica chiesa di severo stile, del monistero a due piani murato a ridosso di verde ed amena collinetta volta a tramontana, e dell’edificio che già fu spedale di pellegrini, mi porsero invito a visitare que’ luoghi in un bel mattino d’agosto (1865); e mi fermai in sulla piazzetta fra lo spedale e la chiesa pensando al sentimento religioso che ne consigliò l’erezione.

[421]

Gli Antoniani cessarono d’esistere, e S. Antonio di Ranverso ora è commenda che appartiene all’ordine dei Cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro. Il monistero annesso alla chiesa è abitato solamente dai cappellano e dall’economo che presiede agl’interessi della Commenda.

Lo spedale non conserva d’antico se non la bella gotica porta che mette al giardino, ed il luogo è quasi deserto. Incontrai alcune guardie forestali dell’Ordine Mauriziano, e nell’ospizio, ove un tempo si vedevano raccolti viandanti stanchi ed infermi, trovai una pia fittaiuola di Avigliana, che vincendo di ospitalità il brusco economo, mi accolse con atti cortesi nella povera ed unica sua stanza fra due bimbi e cani e gatti e polli. Quella madre dei due bimbi stese una bianca tovagliuola sulla rustica tavola, e mi porse una tazza di caffè e latte, col pan bigio di campagna.

Ed io ne fui lieto come a lauto desinare.

XXVIII.

Il cappellano di Ranverso, Luigi Quartino, era andato al paesello Rosta, e non appena tornato mi riconobbe festivamente per il poeta di cui aveva udito i versi improvvisi nel verno del 1837, alunno nel seminario di Nizza.

Quel bravo sacerdote volle essermi guida su per l’ampia scala, e ne’ corridoi del grandioso monistero, ed introdottomi nelle sue stanze mi aperse libri e notizie manoscritte da lui raccolte, importanti alla storia del luogo; e mostrommi la lista araldica di cinquanta stemmi di maestri ed abati dell’Ordine Antoniano, ch’egli fece trarre dalle pareti del chiostro e colorire con molta diligenza.

Io ne segnai gli appunti in un quaderno di memorie, e già sulla soglia della piccola sua biblioteca io stava per uscire col cappellano e visitare la chiesa, quando m’imbattei a faccia a faccia con un prete francese, che già aveva conosciuto a Lione dal 1838 al 39, fra i più venerati e dotti amici dell’Ozanam,[422] cui andiamo debitori di rare opere di letteratura storica e religiosa.

Deggio tacerne il nome per obbedire alla soverchia sua umiltà e modestia.

XXXIX.

—Oh Regaldi! sclamò il prete francese cingendomi il collo delle sue braccia.

—Oh! signor abate, risposi io facendo altrettanto. E stemmo alcun tempo guardandoci l’un l’altro con sorriso di gioia.

Alla fine l’abate prese la parola e mi disse:

—Mio caro, il proverbio non falla: i monti stan fermi e gli uomini s’incontrano.

—Oh! senza dubbio, risposi, con lui rientrando nella biblioteca al dolce invito del cappellano, e ci sedemmo l’un presso l’altro in vecchi seggioloni a bracciuoli.

—Gli uomini, seguitai a dire, si muovono e s’incontrano. Io incontrai l’ultima volta il nostro rimpianto Ozanam nel 1841 in Sicilia, innanzi alle storiate porte di bronzo della basilica normanna di Monreale, e in certe antiche parole di quella porta salutammo insieme gli esordi della lingua che divenne tanto armonica e divina nel poema dell’Allighieri, di cui egli fu sublime interprete filosofando cristianamente. Ed ora incontro voi (e ne ringrazio il cielo), suo degno amico, pure innanzi a cristiano monumento, in luoghi ricchi di memorie religiose e guerresche.

Dacchè ci siamo conosciuti volsero molti anni, ne’ quali ho corso l’Oriente studiando la storia del Cristianesimo e i fasti della cavalleria latina.

—Ed io, ripigliava egli, ho corso ormai tutta Europa, rovistando gli archivi polverosi, per suscitare nomi e storie d’insigni francesi che portarono fra gli uomini la fede, la scienza e la civiltà.

Spesso mi chiudo e vivo nella solitudine de’ chiostri, e non[423] cercando i rumori della fama, colla pubblicazione di memorie anonime mi compiaccio di rivendicare a’ miei antichi ciò che loro è dovuto: e qui, poco discosto dalle Chiuse, qui dove suonano gl’imperituri nomi di Pipino, di Carlomagno e di Rolando, non può a meno che non si rinvengano le notizie di qualche nostra gloria, di cui siansi giovate a vicenda la Religione e la Civiltà.—

Ciò diceva con quel fare enfatico, proprio de’ Francesi, che cercano la loro patria in ogni terra, e fiso aspettando da me una risposta.

—Oh! ripigliai sorridendo, qui nel chiostro di Ranverso non credo che i vostri Franchi abbian lasciato veruna memoria. Il convento e la chiesa sono del secolo duodecimo, e debbonsi ad un Umberto di Savoia ed a Giovanni Gerso.

XXX.

Il Libro De Imitatione Christi.

—Come, come! interruppe con enfasi l’abate, rizzandosi in piedi: Giovanni Gerson, avete detto?

—Per l’appunto. Gerso o Gerson vale lo stesso.

—L’autore forse de’ quattro libri Dell’imitazione di Cristo?

—Senza dubbio.

—Ma allora questo monistero si deve ad uno dei nostri.

—Scusatemi, ottimo abate, se vi contraddico. Il Gerso o il Gerson della Imitazione di Cristo venne qui da Cavaglià dove nacque, e Cavaglià è un luogo di 2400 abitanti, nel circondario di Biella, sulla via maestra fra Ivrea e Vercelli.

—E il Monfalcon?

—Il Monfalcon nell’edizione poliglotta di Lione, per soverchio amor di patria, attribuì il famoso libro al cancelliere Giovanni Charlier, nato nel villaggio di Gerson, diocesi di Reims, e morto a Lione nel convento dei Celestini.

—Precisamente!

[424]

—Or bene, il vostro cancelliere, mio caro abate, era un Charlier, e il nostro monaco un Gerson, l’uno e l’altro dotto e pio, l’uno e l’altro rispettabile e benemerito della religione e delle lettere.

—E chi vi dice, ripigliava l’abate con un po’ di bizza, che l’autore di quell’aureo libro non sia piuttosto il nostro Charlier che il vostro Gerso? Quanti uomini insigni non presero nome dal luogo natale, specialmente ne’ tempi lontani!

—Voi dite bene, gli risposi; ma in controversie, come questa, mi concederete che le date e i codici debbano dissipare ogni dubbio e far risplendere la verità.

—Per l’appunto.

—Allora con calma cristiana uditemi. La storia del libro Dell’imitazione di Cristo e del vero suo autore, scritta dal cavaliere Degregori, e il codice De Advocatis da lui trovato nel 1830 in Parigi, nella libreria Techener, e donato all’archivio capitolare di Vercelli, sono gravi argomenti contro coloro che ne facevano autore il Kempis e il cancelliere parigino Gerson. Valenti bibliofili e paleografi giudicarono essere il codice De Advocatis del secolo XIII, quando ancora non erano nati nè l’uno nè l’altro dei supposti autori.

Ernesto Rénan, acuto indagatore, se non pio cattolico, quale voi siete, o Abate, è pure d’avviso[28] che nessuno di quei due sia l’autore d’esso libro; e il dotto vostro amico, conte di Montalambert, nella sua Storia di Santa Elisabetta d’Ungheria, celebrando il libro Dell’imitazionecet ouvrage que tous les siècles ont reconnu sans rival, lo attribuisce pure al Monaco vercellese.

Io per rinvigorire il mio assunto non imiterò il Paravia nel suo elegante ed erudito discorso intorno al vero autore Dell’imitazione di Cristo, che primamente ai 2 di aprile 1846 recitava nell’ateneo di Treviso, nè seguirò il Rénan nel suo capitolo: L’auteur de l’imitation de Jésus-Christ, col citare a documento[425] il Diarium della casa Avogadro, nel quale fu detto essere registrata una nota, da cui risulterebbe che nel 1349 il prezioso codice Della imitazione era già da gran tempo posseduto dagli Avogadro, come tesoro ereditario.

Nessuno affermò di aver veduto quel Diario. Nol vide monsignor Giovanni Pietro Losana, vescovo di Biella[29], che testimoniò di aver veduta la nota famosa; ma a dir vero, sulla fede soltanto di un fac-simile, presentatogli dall’abate Gustavo Avogadro, fattosi innanzi ai dì nostri qual possessore del prezioso Diarium, uomo per altro dì molto credito tra i famigliari del cardinale Morozzo, vescovo di Novara. Non lo potè vedere dopo ripetute istanze il Degregori; nè il conte Filiberto di Colobiano lo trovò nella libreria dell’estinto Gustavo Avogadro, acquistata in nome della Regina vedova Maria Cristina. Monsignor Malou dichiarò il Diarium, chiffon de vieux papiers qui n’a aucun caractère authentique ou extrinsèque d’authenticité. Fu del Diario degli Avogadro probabilmente come della pergamena del cremonese monsignor Dragoni[30], con cui si provava ad evidenza che Martino, diacono di Ravenna, insegnò a Carlomagno la via delle Alpi. La pergamena tenuta come autentica dal Troya e dall’Odorici, venne giudicata falsa dal Vustenfeld, e dimostrata tale con inconcussi argomenti dall’esimio Francesco Robolotti.

Non vi parlo insomma di merce spuria o sospetta, ma di documenti irrefragabili che il conte Luigi Cibrario, primo segretario di S. M. per il gran Magistero dell’Ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro, scoperse nell’archivio di quell’Ordine, e che di buon grado vi mostrerà, come fece a me, con gentilezza pari alla nota sua dottrina.

Anzi, egli ne pubblicò una erudita e coscienziata relazione, e la trovate in questa libreria del Cappellano, nel volume delle Operette varie del Cibrario.

[426]

XXXI.

—Oh il Cibrario! interruppe l’Abate: l’autore della Economia Politica del Medio Evo, è scrittore grandemente stimato anche dai nostri Francesi, i quali non sogliono tener conto che delle vere celebrità.

—Non istento a crederlo.

—Ebbene, vediamo che dice il Cibrario.

Pregai il Cappellano ad aprirmi la libreria, ch’io aveva mezz’ora prima esaminata, e tratto da uno scaffale un volume del Cibrario stampalo dai Botta a Torino nel 1860, l’apersi alla pagina 425 e vi leggemmo: «Sovrabbondano poi argomenti e prove materiali per dimostrare che ad uno scrittore del secolo XII e XIII, non ad altri d’età posteriore, si debba attribuire il libro Dell’imitazione di Cristo. Prima di tutto, lo stile dove si vedono di quando in quando reminiscenze di quelle cadenze rimate colle quali s’intendeva ad abbellire la metà ed il fine dei versi ed anche le prose dei letterati dei secoli XI e XII—Parvus est dictu, sed plenus sensu et uberi fructu—Si posset a me fideliter custodiri, non deberet in me turbatio oriri».

—Oh! sì, sì, codesto è modo antico, esclamò l’Abate.

—Proseguiamo a leggere: «Poi la dolcezza, la semplicità dello stile, la scarsità delle citazioni convengono ai tempi in cui fiorì il fondatore di Sant’Antonio di Ranverso, e spiegano come il libro De imitatione abbia potuto attribuirsi da molti a S. Bernardo, che di alquanti anni lo precedette. Ed all’opposto dimostra il poco avvedimento di coloro che a Giovanni Gerson, cancelliere parigino, e peggio ancora, a Tommaso da Kempis, scrittori dei secoli XIV e XV, e di genio disparatissimo, lo attribuirono».

—Queste gravi ragioni del Cibrario mi entrano nell’animo, sclamò l’Abate francese.

—Ma procediamo innanzi, ripigliai io, vediamo che dice il Cibrario intorno ai codici del famoso libro controverso. Egli ne[427] cita sei: quello della Cava che dalla forma dei caratteri, e specialmente delle maiuscolette, riconosce evidentemente non potersi riferire fuorchè alla prima metà del secolo XIII; quelli di Polirone e di Vercelli, che appartengono al medesimo secolo; quello di Robbio in carta bambagina, ed altrettanto antico; quello di Arona, conservato nella biblioteca della R. Università di Torino; alfine è l’Allaziano, che il Baluzio, il Ducange ed altri autorevoli paleografi, giudicarono del secolo XIV. Ora, signor Abate, sapreste dirmi quando nascesse e quando sia morto il vostro Giovanni cancelliere?

—Credo nascesse nel 1360 o in quel torno, e morisse presso a poco sul 1430.

—Si fa presto, soggiunsi, a saperne precisamente le date. Ecco qua il Dizionario Universale del cav. Angelo Fava. Ecco l’articolo Gerson…. Vediamo: «Giovanni Charlier nacque a Gerson nel 1363 e morì a Lione nel 1429». Ora se il codice della Cava del libro De imitatione, nel quale è miniata l’effigie di un monaco Antoniano, fu scritto prima del 1260, non poteva l’opera essere dettata da chi venne al mondo un buon secolo dopo. Non parliamo del Kempis che nacque nel 1380, e morì decrepito nel 1471.

—Intorno al Kempis, m’interruppe l’Abate, io non avrei questionato mai. Tommaso da Kempis, di cui ho letto attentamente la vita, nacque in Prussia a Kempen, e si chiamava Hamerken, cioè Malleolus, ed essendo poverissimo, si fece monaco a Monte Sant’Agnese di Deventer, e da principio si guadagnava la vita copiando libri corali. Valente calligrafo, trascrisse poscia e ripetè Bibbie e raccolte diverse, e specialmente i quattro libri De imitatione Christi, cui scriveva in fondo finitus et completus per manus fratris Thomae a Kempis; e li mandava pro praetio a vari monasteri della Germania. Da ciò si vede che era un amanuense, un copista, ma non un autore, come indarno tentò dimostrare l’illustre prelato Malou.

—Ebbene, io replicai, v’invito a leggere per intiero questa erudita memoria del Cibrario, da cui si apprende eziandio che[428] il Gerso di Cavaglià era monaco Antoniano e non Benedettino, come si era creduto per lo innanzi, e che probabilmente s’iniziò alla vita monastica nella casa dei frati Spedalieri in Vercelli; dipoi qui venuto a fondare il chiostro di Ranverso, fu assunto alle più alte dignità del suo ordine religioso.

Non vi prenda maraviglia, ottimo Abate, ch’io m’intrattenga con tanto zelo a ragionarvi dell’autore del libro Dell’imitazione di Cristo: incontrerete altri e non pochi in Italia, che ve ne parleranno col medesimo affetto.

Presso Padova, nel cospicuo monistero di Praglia, il monaco benedettino Buzzone per molti anni volse l’animo a raccogliere in gran copia le edizioni a stampa di questo santissimo libro; e Murano, l’isoletta che fu prigione a Silvio Pellico, ne ha una raccolta più abbondante nell’antico ospizio di S. Michele. Inoltre un viaggiatore inglese narra nel Galignani (giugno 1859), che in Vercelli, mentre ardeva la mischia fra Italiani ed Austriaci sulle prossime rive della Sesia, un canonico nell’archivio capitolare gli mostrava il codice De Advocatis, e si riscaldava a provargli che l’autore di quel libro era il Gerson vercellese; e tutto ciò faceva il buon canonico con animo sereno, come se allora la guerra non tonasse alle porte della città.

Questi particolari dimostrano la riverenza profonda degl’Italiani al libro Dell’Imitazione, fatta più viva dalla maggior frequenza di lettori, allettati dall’elegante versione italiana dell’abate Cesari.

Caro Abate, non vi maraviglierete dunque che anch’io, come il monaco di Padova e il canonico di Vercelli, porti singolare affetto al Gerson che fu il fondatore di questo chiostro, e che forse meditò il celebre libro nella prossima chiesa che andremo a visitare.

—Ammiro, sclamò l’Abate, l’ossequio degl’Italiani al pio libro su cui tanto si è disputato. Benchè un nostro romanziere lo pigliasse a gabbo in questa età di scettici, pure le anime credenti, nelle tribolazioni, cercano conforto in quel libro, che il nostro Lamennais traduceva e splendidamente commentava nei giorni migliori della sua fede, e che il vostro Gioberti baciava morendo.

[429]

Così parlando mi strinse fortemente la destra e poi riprese:

—Sì, sì, il libro Dell’Imitazione è santissimo libro. Oh! come si sarebbe deliziato in questi discorsi il nostro lagrimato Ozanam, che tanto amò Francia e Italia, immedesimandole nel sentimento del bello e del vero. Egli, abborrente dagli spiriti di parte, e con intendimento tutto umano, avrebbe con noi conchiuso, che il libro Dell’Imitazione, sia dettato da un Francese, da un Italiano o da un Alemanno, è opera che onora tutta la cristianità.

—È vero, è vero, disse il Cappellano, ch’era stato sempre intento ad ascoltare il nostro dialogo, e soggiunse: Ora venite meco a visitare la bella chiesa fondata da Giovanni Gerson.

XXXII.

Usciti dalla stanza della libreria, e discesi per l’ampia scala in compagnia del Cappellano, andammo a visitare la chiesa; la quale, se non avesse che l’impronta della sua primitiva erezione, sarebbe un pellegrino monumento di cristiana antichità, ma le scemano importanza i ristauri e le posteriori costruzioni.

La sua facciata guarda a ponente, come tutte le antichissime del cristianesimo, sicchè il sacerdote che sale pel sacrificio all’altar maggiore, tiene il viso rivolto alle regioni di Terrasanta. La maggior porta, a sesto acuto, come ai lati le due minori, hanno cornici massiccie di mattoni finissimamente lavorati ad arabeschi. La porta principale non è a piombo col sovrapposto finestrone, ma esce dall’asse verticale notabilmente verso destra. Questo difetto di simmetria nelle finestre e nelle porte di molti antichi edifizi, non saprebbesi bene a che attribuirlo, se ad inscienza architettonica, o ad una certa noncuranza allora in uso. E chi vorrebbe tacciar d’inesperto il famoso Giotto, l’architettore di quel campanile di Santa Reparata in Firenze, che Carlo V giudicava degno di una custodia di cristallo? Eppure la famosa torre di Giotto ha la porta d’ingresso fuori del centro, nè questo arbitrio le toglie vaghezza.

[430]

Ma ritornando alla vetusta chiesa di Ranverso, nell’atrio a mano destra entrando, era un tempo effigiato nella parete S. Antonio benedicente, e lo stemma della R. Casa di Savoia, sul quale un’iscrizione latina riferivasi alla fondazione del chiostro. Tuttociò fu coperto da improvvida imbiancatura. Furono però risparmiati sopra la porta la Madonna con alcuni santi, e i bizzarri capitelli con fregi, fra cui sono scolpiti stemmi, animali d’ogni sorta, e teste di monaci incappucciati, colle braccia conserte al petto.

Levai lo sguardo allo svelto campanile, di quella foggia ardimentosa che fu detta gotica, e non è; perocchè i Goti più che erigere, distrussero, e se innalzarono edifici, non furono dedicati al culto cristiano ed a’ suoi santi. La torre di Ranverso ha una sola campana di gran mole e di buon getto: è di forma quadrangolare con pittoreschi trafori e quattro piccole aguglie agli angoli, fra le quali spicca la quinta più alta, coll’anagramma antoniano. Piega alquanto al sud, facendo ricordare le torri pendenti di Pisa e Bologna. Nel lato sinistro della chiesa sulla piazza parla all’intelletto e al cuore un ottangolare piliere di grigia pietra, infisso nella roccia; il quale nella sommità finisce in dado su cui posa un pezzo di marmo bianco, scolpito da un lato colla figura del pellicano, da un altro con quella della colomba, simboli eloquenti della carità e della semplicità, virtù che, secondo la mente dell’institutore, dovevano splendere soprammodo nei benemeriti cenobiti Antoniani.

XXXIII.

Entrammo nella chiesa, la quale ha tre navate; a sesto acuto quella di mezzo e la laterale a destra, ed ha la terza sformata da recenti costruzioni.

Alto cancello di ferro separa dalla chiesa il vasto presbiterio, dove su piedistallo sorge una statua in legno che tiene un libro nella mano sinistra, e la destra appoggiata ad un bastone, da cui pende un campanello. Rappresenta il patrono del luogo l’abate S. Antonio coll’anagramma T sull’abito nero.

[431]

Innanzi a quella statua, guardando all’Abate francese ed al Cappellano, domandai qual fosse il significato del T, tanto ripetuto nelle immagini degli Antoniani.

Il Cappellano prontamente rispose:

—Il Tau è segno di salute, come si legge in Ezechiello al capo IXOmnem autem, saper quem videbitis Thau, ne occidatis; e la Chiesa, nella bolla di fondazione dando all’ordine Antoniano quel segno taumaturgico, lo appella signum potentiae.

—Dice molto bene l’erudito Cappellano, esclamò l’Abate francese; ma io opino il T significasse la specie di gruccia o bastone, di cui il santo anacoreta faceva uso, come lo vedete in questa statua, e il campanello che vi era raccomandato doveva forse servirgli per chiamare i suoi discepoli. Aggiungerei anco che i cenobiti Antoniani, tenendo appeso il campanello alla gruccia del lungo bastone, forse avvertivano li ammorbati di fuoco sacro, come i monaci del S. Bernardo i viandanti smarriti fra le grosse nevi di quell’alpestre passaggio.—

Si aderisca all’opinione del Cappellano o a quella dell’Abate francese, poco importa. Certo si è che il T è segno caratteristico degli Antoniani, per cui nel monumento di Ranverso sulle guglie intorno al frontone della chiesa, e su quelle dello spedale e del campanile sorge il simbolico anagramma in ferro; è scolpito sui quattro lati nel dado del piliere in piazza, ed è dipinto nella facciata della chiesa, e su gli stemmi lungo i vasti corridoi del monistero. Tutto colà ricorda i pietosi spedalieri coll’anagramma T proprio di quell’ordine benefattore.—

XXXIV.

Ci appressammo ad ammirare l’icona dell’altar maggiore, monumento della pittura italiana in Piemonte. L’icona è formata da vari quadri dipinti sul legno col fondo in oro, e tramezzati da ricche scolture in legno dorate; il quadro di mezzo rappresenta la Natività di nostro Signore con a destra i santi Antonio[432] e Sebastiano, e a sinistra S. Rocco e S. Bernardino da Siena, che predicò in quella chiesa l’anno 1443. Nella base vi sono quindici piccoli quadri che ritraggono fatti relativi alla vita di S. Antonio.

Il prete francese, compreso d’ammirazione, mi chiese del nome dell’autore di quella mirabile icona.

—Alcuni la vogliono lavoro del Macrino d’Alba, altri del Gaudenzio Ferrari: io risposi, come aveva letto in qualche memoria.

—No, no, interruppe il Cappellano: non è opera di nessuno dei due. È lavoro invece di Defendente De Ferraris da Chivasso, al quale ne affidava l’esecuzione la città di Moncalieri il 21 aprile del 1530, come si ritrae da documenti trovati nell’archivio di quel municipio, e con atto del 16 gennaio 1531 gliene pagava il prezzo pattuito di fiorini ottocento e grossi dieci[31]. Il nome di Defendente De Ferraris deve entrare nella storia delle arti italiane: di lui sono probabilmente molti bei quadri che si trovano segnati D. D.—

Ci suonò gradita questa notizia in fatto d’arte, e domandammo al Cappellano, se si sapesse il perchè la città di Moncalieri tanto si adoperasse ad ornare la chiesa di Ranverso. Al che rispose il Cappellano:

—La pia città di Moncalieri, nell’epidemia, onde fu travagliata nel 1400, votavasi a S. Antonio di Ranverso, per cui facevasi eziandio erigere l’altar maggiore da cui sorge l’ammirata icona; ed ogni anno, siccome vien riferito dalla cronaca inedita di Moncalieri, nel dì della festa del Santo il sindaco di quella città, consiglieri, segretario ed usciere del Comune qui vengono nella messa solenne ad offrire all’altare antoniano un cero e danaro.—

[433]

XXXV.

Il Sepolcro di Giovanni Gerson.

Ciò detto, il Cappellano dopo di averci additato pregevoli affreschi nelle pareti della sagrestia ci ricondusse nel presbiterio innanzi all’antico sepolcro dei monaci Antoniani, e sclamò:

—Qui, come appresi da antiche carte, qui fu sepolto Giovanni Gerson, il fondatore del chiostro.—

L’Abate francese e il Cappellano chinando il capo sul sepolcro alternarono insieme una preghiera; e poi, mentre stavamo per uscire dal tempio, l’Abate dando un ultimo sguardo alla tomba del Gerson ripetè le memorande parole: Vanitas vanitatum et omnia vanitas.

—Oh rispettabile Abate, gli osservai: un altro grande italiano, Giacomo Leopardi, come Giovanni Gerson pianse le miserie della vita

«E l’infinita vanità del tutto».

Ma il Gerson si confortava delle umane calamità in Dio e nell’avvenire dello spirito immortale; all’opposto l’infelice Leopardi nella vanità del tutto rimaneva agghiacciato dallo scetticismo.

—Oh beato l’uomo che serba la fede, questo tesoro preziosissimo dell’anima! proruppe il Cappellano riconducendoci nella piazzetta presso al simbolico piliere.—

Un colono di Alpignano, inteso ai lavori campestri della Commenda, trovandosi accanto al piliere, nell’udire il Cappellano far cenno di un tesoro, voltosi a noi disse:

—Se vanno in cerca di tesori nascosti, vadano al mio paese; ve n’ha uno sepolto sotto il castello, che non si è potuto scoprire.—

Il colono di Alpignano ci mosse a riso. Mi accommiatai con affetto dal Francese, che recavasi al luogo delle Chiuse ed alla[434] Badìa di San Michele: ed io, ringraziato il buon Cappellano, volsi i pensieri e la persona al castello del tesoro.

XXXVI.

Il Musinè.

Prima di parlare di Alpignano aggiriamoci sulle balze del Musinè, ossia Monte Asinaro, che più alto del Pirchiriano, sulla riva sinistra della Dora, sorge dal livello del mare all’altezza di 1168 metri.

Volli vedere l’idrofana[32], pietra che fu chiamata pomposamente occhio del mondo. Non pochi luoghi in Europa posseggono l’idrofana, fra i quali le isole d’Iheroè, la Sassonia, l’Ungheria e la Francia; ma forse più che altrove, se ne rinviene in codesto monte del Musinè, e trovasi sparsa nelle vene di calcedonio e di serpentina dura, che da ogni lato e in ogni direzione attraversano quell’altura tutta serpentinosa.

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