Marzo 17, 2021

Scritta ritrovata di Giacomo Jaquerio e Defendente Ferrari, particolare della predella del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa dell’Abbazia di S. Antonio di Ranverso.

Scritta ritrovata di Giacomo Jaquerio e Defendente Ferrari, particolare della predella del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa dell’Abbazia di S. Antonio di Ranverso.

MONUMENTI PITTO R ICI giacomo jaquerio archive.digibess.eu rilevatore Ersilio Teifreto
DEL PIEM ONTE ANTICOI j e annuali pubblicazioni artistiche promosse dall’ISTITUTO
BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO risalgono ormai, com’è
noto, al 1952. Esse costituiscono dunque una piccola “ biblioteca” che per il suo scopo divulgativo d’alcuni importanti
musei italiani o di complessi d’opere d’arte localizzate in una
città o in una regione nostra, e per il metodo seguito nella
scelta dei soggetti e nella compilazione delle note illustrative,
ha assunto un carattere unitario che la distingue da altre
analoghe, ma più casuali, pubblicazioni. Inoltre, poiché ogni
monografìa si compone di ventiquattro tavole a colori, è precìpuo assunto dell’ISTITUTO che le riproduzioni siano rigorosamente fedeli agli originali, almeno per quanto lo consente
la più progredita tecnica fotomeccanica: fedeltà, del resto,
di cui si rendono garanti sia il curatore sia lo stampatore di
queste edizioni, e che replicatamente è stata notata e lodata
da autorevoli periodici d’arte.S’ebbero così finora le illustrazioni della Galleria Sabauda
(1952), della Galleria Civica d’Arte Moderna (1953), del Museo Civico d’Arte Antica unitamente alla sua storica
sede di Palazzo Madama (1954-), di Torino; di ventiquattro
capolavori della città di Vercelli (1955); della Galleria di
Palazzo Bianco a Genova (1956). Quest’anno, dopo la parentesi
genovese, s’è tornati

in terra subalpina per la miglior conoscenza di tre insigni monumenti pittorici piemontesi, che per
la prima volta si riproducono a colori in così gran copia di
particolari: e precisamente gli affreschi di Giacomo Jaquerio
nella chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso, all’inizio
della Val di Susa; quelli della sala baronale del castello della
Manta, presso Saluzzo, di anonimo maestro piemontese della
prima metà del Quattrocento; e infine quelli di Giovanni
Martino Spanzotti, databili intorno al 1500, nella chiesa dell’ex
convento di S. Bernardino ad Ivrea.
Giacomo Jaquerio è il massimo rappresentante in Piemonte
— con il frescante della Manta — dello stile neogotico internazionale nei primi decenni del secolo XV; Martino Spanzotti
è il grande artista casalese che, operoso fra Quattro e Cinquecento, apre alla pittura piemontese un gusto nuovo più
“lombardo” e in un certo senso più “umanistico” . Una sintesi
di tutto un ciclo di cultura figurativa in Piemonte offre perciò
quest’anno l’ISTITUTO BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO
per contribuire alla divulgazione del patrimonio artistico
nazionale.DI QUESTO LIBRO
SONO STATI STAMPATI
2000 ESEMPLARI
DEI QUALI 099
FUORI COMMERCIO
870Particolare della predella del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531,
esistente nella chiesa dell’Abbazia di S. Antonio di Ranverso.ISTITUTO BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO
TRE
MONUMENTI PITTORICI
DEL PIEMONTE ANTICO
A CURA DI MARZIANO BERNARDI
TORINO 1957Particolare della predella del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa
dell’Abbazia di S. Antonio di Ranverso.
L
a scelta, fra i molti della regione piemontese, degli antichi affreschi che qui
per la prima volta si riproducono a colori in cosi gran numero di particolari
da quando cominciarono ad essere studiati non più soltanto su documenti d’archivio ma nella loro realtà di insigni opere d’arte, oltre che dall’alto valore pittorico
è giustificata dal fatto ch’essi rappresentano compiutamente la cultura figurativa
subalpina, quale s’affermò e si svolse dai primi decenni del secolo XV fino all’inizio
del Cinquecento: tipiche espressioni locali di un più vasto movimento del gusto
che, premendo dalle terre circostanti, fortemente influì sui modi del loro manifestarsi, anzi ne fu la sostanza. Una condizione culturale che Anna Maria Brizio
nel suo libro su La pittura in Piemonte dall’età romanica al Cinquecento (Torino,
111942) puntualizzò in poche righe riassuntive: «Crediamo che, in breve, il panorama della pittura quattrocentesca in Piemonte possa disegnarsi sulla trama di
una civiltà gotico-fiorita che si svolge in prevalenza nel Piemonte Occidentale,
in Savoia, nel Cantone Ginevrino, per un quarantennio circa, poi si affievolisce
e declina fino alle soglie del 500; e di un’altra corrente, più legata alle scuole di
Lombardia, avente il suo centro più ad oriente, che si afferma nelPultimo quarto
del secolo ed esprime la figura di Gian Martino Spanzotti ».
Ecco infatti dalla presente pubblicazione esemplificate nella loro qualità, per
prestigio d’arte, più convincente, sia quella civiltà sia quelle tendenze: l’una, dalle
pitture pressoché coeve della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso, allo
sbocco della Val di Susa, e del castello della Manta, prossimo a Saluzzo; l’altra,
dagli affreschi della chiesuola dell’ex convento di S. Bernardino, nei dintorni
d’Ivrea. Le prime, di solito assegnate al secondo quarto del secolo XV; i secondi,
a circa il 1500. Se i dipinti della Manta sono considerati dalla maggior parte degli
studiosi opera di un eccellente maestro non ancora uscito dall’anonimato, quelli
di Ranverso e d’Ivrea hanno da tempo trovato paternità ormai indiscussa in due
dei più forti esponenti del suddetto panorama: Giacomo Jaquerio, attivo fra il
1401 e (presumibilmente) il 1453, anno della sua morte, e Giovanni Martino
Spanzotti, della cui vitalità si hanno notizie dal 1480 al 1526.
Il tema della cultura artistica piemontese nel periodo che corre fra queste
date — un tema di eccezionale interesse, suscettibile dei più sottili dibattiti — è stato
più volte trattato, con risultati che in passato si fissarono di solito in termini
negativi. Scriveva ad esempio sullo scorcio del Settecento nella sua Storia pittorica
l’abate Luigi Lanzi, pur riconoscendo al Piemonte il diritto di « aver luogo »
nella storia della pittura : « Il Piemonte per la sua situazione è paese guerriero; e
se ha il merito di avere al resto d’Italia protetto l’ozio necessario per le belle arti,
ha lo svantaggio di non aver mai potuto proteggerlo durevolmente a se stesso.
Quindi Torino, quantunque ferace d’ingegni abili a ogni bell’arte, per adornarsi
da città capitale, ha dovuto cercare altrove i pittori, o almen le pitture; e quanto
ivi è di meglio, sia nel palazzo e nelle ville reali, sia ne’ pubblici luoghi sacri,
profani, sia nelle quadrerie de’ privati, tutto è lavoro di esteri ».
E fra gli « esteri » il Lanzi poneva « i Novaresi, i Vercellesi, e alcuni del Lago
Maggiore », fedele al suo programma di trattar « la storia delle scuole pittoriche,
non degli stati »; mentre non senza discernimento includeva fra i piemontesi (e
12Particolare di uno dei
se tte scomparti della
predella del polittico di
Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa dell’abbazia di S. Antonio
di Ranverso. Il centro
del polittico rappresenta la Natività; la predella le storie della
vita ed i miracoli di
S. Antonio abate. Nel
particolare: l’abbraccio
di S. Antonio abate e
di S. Paolo eremita.basti pensare allo Spanzotti, a Defendente Ferrari poco più tardi) « gli artefici
del Monferrato » i quali « non son forse mai nominati fra gli allievi de’ milanesi »;
sì che rudimentalmente egli delineava un gusto locale — nell’« antico Piemonte »,
nella Savoia e « luoghi finitimi » — per i pochi artisti che le scarse esplorazioni
gli concedevano conoscere; non dimenticando quegli altri « esteri » che i conti
e duchi sabaudi avevan chiamato alla loro corte, il fiorentino Giorgio (Giorgio
dell’Aquila), il veneziano Gregorio Bono, «Nicolas Robert francese» (il Nicolao
Roberti che secondo documenti ai quali purtroppo non corrispondono le perdute
opere avrebbe diviso con Amedeo Albini la successione del prestigio già goduto
nella prima metà del secolo dal Jaquerio). Assai più tardi, nel 1876, il pittore
Francesco Gamba, allora direttore della Pinacoteca di Torino, nel suo saggio sulla
Abbadia di S. Antonio di Ranverso e Defendente De Ferrari da Chivasso, reagiva
contro la « falsa sentenza » emessa dal Lanzi « cui seguirono il Bartoli, il De Rossi,
il Paroletti, il Bertolotti, il Cibrario, Pietro Baricco » (poligrafi, storici, e non
critici d’arte) « che prima del secolo XVI le arti della pittura » non avessero
« ancora posto la loro sede in questa nostra contrada » ; e per merito di alcuni
studiosi s’iniziava un periodo di ricerche che nel giro d’un settantennio dovevano
fornire un ben diverso quadro della cultura artistica in Piemonte, anteriore al
Cinquecento.
Non più dunque, come ripeteva lo stesso Gamba in L ’arte antica in Piemonte
(Torino, 1880), « il falso pregiudizio che in queste regioni, cui fanno corona le
vette nevose delle Alpi… non abbiano allignato le arti belle »; e tuttavia, mentre
s’andava fermando l’attenzione su opere eminenti (per esempio, appunto l’Andata
al Calvario dell’abbazia mauriziana di S. Antonio di Ranverso, non ancora assegnata al Jaquerio) e con la scoperta di documenti si riusciva a configurare personalità artistiche antecedentemente imprecise (per citare un solo caso, si restituivano a Defendente Ferrari quadri già attribuiti a pittori tedeschi, compreso il
Dùr er), un altro pregiudizio si veniva insinuando a mano a mano che l’orizzonte
pittorico piemontese s’allargava: la convinzione che l’influenza degli «esteri»
fosse stata tanto prevalente da soffocare pressoché ogni originalità locale; e che,
anzi, addirittura la mano di codesti « esteri » fosse quasi sempre intervenuta se
non altro nelle opere più egrege. La tradizione tre-quattrocentesca di artisti forestieri ai servizi dei conti e duchi di Savoia, da Amedeo V ad Amedeo V ili; la
tradizione di Giorgio dell’Aquila, preteso allievo di Giotto, che Aimone il Pacifico
14chiamava nel 1341 dilectum familiarem et pictorem nostrum, attivo fra il 1314 e il
1348 per gli affreschi di Chambéry, di Bourget, di Pinerolo, di Pont d’Ain, di
Altacomba; di Barnaba da Modena probabilmente operoso in Piemonte fra il 1370
ed il ’77; di Jean de Grandson, pittore intorno al 1344 della camera domini del
castello di Chillon che Pietro II di Savoia s’era costruito sul Lemano (« J’ay fait
et edifié ung moult beau chastel apellé Chillions; et est sur le lac, et in bel et bon
air, et est fort et seur ».); di Claus Sluter e Giovanni de Prindhalle, scultori borgognoni a Chambéry sul principio del Quattrocento; del veneto Gregorio Bono,
frescante verso il 1430 il chiostro gotico dell’abbazia di Abondance nel Chiablese;
di Jean Bapteur e di Perineto Lamy, miniatori per ordine di Amedeo V ili dello
stupendo Apocalisse oggi all’Escoriale (Vittorio Viale, Arte alla corte sabauda e
in Piemonte nel X IV e X V secolo, conferenza tenuta al « Lyceum » di Firenze e
pubblicata in I Savoia a cura di Jolanda De Blasi, Firenze, 1940; id., Gotico e
Rinascimento in Piemonte, catalogo della seconda mostra a Palazzo Carignano,
Torino, 1939: da notare che questo catalogo costituisce un presupposto fondamentale per lo studio dell’arte in Piemonte dal Duecento al Cinquecento); questa
tradizione avrebbe dovuto riaffermarsi nella maggioranza delle testimonianze artistiche di qualche valore in Piemonte durante l’intero Quattrocento.
Pertanto mezzo secolo fa Paolo D’Ancona, studiando Gli affreschi del castello
di Manta nel Saluzzese, (« L’Arte », Roma, 1905) e domandandosi a quale scuola
si dovesse ascrivere il loro autore, rispondeva senza esitazioni che « ragioni di
genere disparato ci fanno giungere a una medesima conclusione, che cioè abbiamo
a che fare con un’opera tutta ispirata all’arte francese », eseguita fra il 1411 e il 1430
al più tardi. Dal canto suo Lisetta Ciaccio, la quale, dopo aver affermato (Gian
Martino Spanzotti da Casale, « L’Arte », Roma, 1904) che « il Piemonte fu sempre
in tutto il medio evo primeggiato, più che dalla cultura italiana, da quella francese…
e così anche nelle arti », aveva sei anni dopo (Gli affreschi di Santa Maria di
Vezzolano e la pittura piemontese del Trecento, « L’Arte », Roma, 1910) ammesso
la « esistenza di una scuola pittorica piemontese nel Trecento », discorrendo poi
de La pittura del Rinascimento nel Piemonte e i suoi rapporti con l’arte straniera
(«Atti del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte», Roma, 1912), faceva
cader l’accento su tutti i vari apporti forestieri — nordico-francesi, francofiamminghi, svizzeri-tedeschi, catalani — che riteneva di scorgere in opere esistenti
nella regione subalpina, da Chieri a Saluzzo, da Ranverso a Ivrea, in un certo senso
15togliendo ogni autonomia ai maestri, maggiori o minori, piemontesi: quell’autonomia che venticinque anni dopo il Valentiner, come si vedrà, avrebbe viceversa
esagerato facendo del Jaquerio un protagonista « europeo » del gusto neogotico,
spaziante dal Piemonte alla Savoia, dalla Sicilia alla Spagna.
La revisione critica d’una tesi forse troppo facilmente accettata s’imponeva
col progredir degli studi sull’arte subalpina quattrocentesca: ed era annunziata
da Pietro Toesca (Antichi affreschi piemontesi, « Atti della Società di Archeologia e
Belle Arti per la provincia di Torino », 1910) in termini che restituivano a questa
arte un suo grado di originalità: « Nella decorazione della sala baronale di Manta
le iscrizioni francesi e l’iconografia suggeriscono che spetti ad artista straniero, ma
i caratteri stilistici ci lasciano incerti di tale opinione: essi corrispondono alle tendenze che, sul principio del XV secolo, dominavano la pittura non soltanto d’oltre
Alpe ma di gran parte d’Italia, derivano dal verismo superficiale, non sciolto da
convenzionalismi gotici, che si ritrova in miniature franco-fiamminghe come in
affreschi della Lombardia, dell’Emilia, delle Marche, persistente ancora in qualche
luogo sino alla metà del secolo. Perciò, se, col progredire delle ricerche, non si
troveranno al di là delle Alpi — forse in Provenza — altre pitture che siano
intieramente affini a quelle del Castello di Manta, non avremo sufficienti ragioni
per negare che queste siano lavoro di artisti locali e si possano avere per squisita
varietà regionale di uno stile che si estendeva sopra vastissimo territorio ». Era,
si potrebbe dire, una «assoluzione per mancanza di prove»; ed il Toesca, ritornando sull’argomento in La pittura e la miniatura nella Lombardia dai più antichi
monumenti alla metà del Quattrocento (Milano, 1912), non smentiva la sua cautela:
« Tali affreschi piemontesi offrono un saldo addentellato con l’Arte francese; ma
anche altre varietà della Pittura del principio del Quattrocento, nell’Italia superiore, hanno molti rapporti con le forme oltramontane, e valgono a stringere
vieppiù in una unità stilistica il vastissimo terreno che abbiamo corso: come nelle
valli alpine del Piemonte, anche a Milano e a Verona la Pittura oltramontana e
la Pittura locale digradano l’una verso l’altra così che i loro confini non sono
precisi ed esse si saldano insieme con un trapasso quasi insensibile di stile ».
Quanto insensibile possa risultare questo trapasso di stile lo prova il punto
di vista di Charles Sterling, il quale, riproducendo in La peinture française, Les
Primitifs (Paris, 1938) le «Neuf Preuses», particolare dell’affresco della Manta,
16Particolare del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa
dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso. L’atto stipulato in data 1530 fra la comunità
di Moncalieri e « Defendente de Ferraris de Clavaxio » per l’esecuzione del polittico, è
l’unico documento scritto che sia stato rinvenuto (dal padre Bruzza nell’archivio
comunale di Moncalieri) sull’attività del pittore.con l’indicazione «École française vers 1425 », scrive: «À Manta, le style des
peintures se ressent d’une profonde influence française tandis que dans les fresques
du château de Fénis (Piémont), de la fin du XIV siècle, ont doit même reconnaître
la main d’un peintre français»; mentre la moderna critica italiana ravvisa a
Fénis, come a S. Antonio di Ranverso ed alla Manta, l’opera di artisti autoctoni.
Comunque, come bene osservò Augusto Cavallari Murat (Considerazioni sulla
pittura piemontese verso la metà del secolo XV, « Bollettino Storico-Bibliografico
Subalpino», 1 orino, 1956), la «chiave risolutiva» per la nuova apertura critica
era trovata. E si noti la sua importanza: «varietà», e non soltanto — quale
prima s intendeva — dipendenza d’uno stile; cioè una voce propria d’arte che si
laceva udire dal Vaud sulle rive del Lemano a Nizza sulla sponda mediterranea,
dalla Bresse racchiusa fra il Rodano, la Saona e l’Ain, a Vercelli sui confini del
Ducato di Milano: «regione» sabauda al cui centro stava la «Savoie propre»
con la capitale Chambéry al di là delle Alpi, ed al di qua il « Piemonte » della
prima metà del Quattrocento, fra il Dclfinato e i marchesati di Saluzzo e Monferrato,
e la signoria milanese, governato per oltre un secolo — da Pinerolo e da Torino —
dai D’Acaia. Insomma , nel quadro del neogoticismo europeo veniva riconosciuta
una « vena lirica » del popolo piemontese, destro nel rude maneggio delle armi,
ma pur sempre credente fervido ed umile al cospetto della Divinità » (Cavallari
Murat, op. cit.); ed agli artisti sorti da questo popolo una possibilità di esprimersi
sulla medesima linea tenuta da Michelino da Besozzo e dagli Zavattari in Lombardia, da Stefano da Zcvio e dal Pisanello a Verona, da Gentile da Fabriano nelle
Marche, da Masolino da Panicale in Toscana. Al colore di Michelino da Besozzo e
di Masolino da Panicale faceva appunto accenno il Toesca (La pittura e la miniatura nella Lombardia, op. cit.) a proposito d’alcune figure affrescate a Fénis; e
il Cavallari Murat (op. cit.) calorosamente affermava che « l’adesione dei piemontesi allo stile neogotico non rappresenta, in quei tempi lontani, una passiva
e ritardataria conseguenza di più o meno sentiti contatti con l’esterno, bensì un
fatto di viva, spontanea e palpitante attualità », onde « il più prezioso mazzo dei
quattrocenteschi fiori pittorici del forte e guerriero Piemonte non deve più temere
la grave responsabilità dell’appartenenza ad un’epoca che vantava già la diffusione
e le affermazioni degli insegnamenti masacceschi e mantegneschi ».
Quali siano i caratteri dello stile neogotico, giustamente chiamato « internazionale », dello stile cortigiano — meglio, anzi, « cortese » — e cavalleresco, è così
18Facciata della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso. Il portico d’ingresso coi tre archi acuti
risale al secolo XIV. Le decorazioni in cotto vennero eseguite nell’ultimo trentennio del Quattrocento.
19noto che non vai la pena insistervi. Il suo linguaggio più tipico echeggia con
inflessioni formali diverse, ma con un contenuto fondamentalmente unitario, tanto
nel S. Giorgio e la Principessa del Pisanello a S. Anastasia di Verona quanto nel
Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani a Palermo, di non ancora accertato autore
(Liliane Guerry, Le thème du Triomphe de la Mort clans la peinture italienne,
Paris, 1950); tanto nel maestro catalano della Leggenda di S. Giorgio del Louvre
e dell’Art Institute di Chicago quanto nel « primitivo » svizzero Conrad Witz dello
Specchio miracoloso; tanto nella Comunione di S. Dionigi di Jean Malouel e di
Henri Bellechose al Louvre quanto negli affreschi di Masolino da Panicale a
Castiglione Olona. Forme e contenuti che il Toesca or non è molto perfettamente
definì proprio parlando di questi affreschi (Masolino a Castiglione Olona, Milano,
s.d.) e dello « stile gotico che tra la fine del Trecento e il principio del Quattrocento
ebbe una gradazione, fra idealismo e realismo, detta del “gotico internazionale”
— poco curante dell’intrinseca natura delle cose, o dell’animo, e d’interpretare il
sensibile in modo personale a ciascun artista, pur di ornare, tutto trasponendo
in modi armoniosi ma superficiali, brillanti ma di tenue sostanza, sia corporea sia
spirituale: uno stile che ha singolari qualità poetiche, e un potere di trasfigurazione
fantastica per l’attenuarvisi di molti dati dei sensi — spazio; volume e peso; struttura e proporzioni dei corpi — che non è difetto, se libera l’immaginazione del
pittore a trovare ciò che più gli importa: lievità di ritmi; vaghe suggestioni; uno
svanire della “realtà” in un mondo incantato. Era uno stile che consentiva molte
varietà ai suoi fedeli: dalle miniature franco-fiamminghe più intese ad astratta
decorazione, a quelle splendenti del chiarore e del senso del paesaggio nelle “Très
riches Heures” del Duca di Berry; dalle opere di Lorenzo Monaco a quelle di
Gentile da Fabriano, dei Sanseverinati, del Pisanello».
Piuttosto giova sottolineare, con la guida del Cavallari Murat (op. cit.), la
particolare vibrazione che in Piemonte ebbero quelle forme per lo « spirito
ancora trecentescamente mistico della pittura piemontese e savoiarda del primo
Quattrocento»; l’incontro delle correnti lombarde con quelle transalpine; un
accento strettamente locale — come di dialetto — nei lineamenti calligrafici:
« quei visi, quei nasi appuntiti con narici fortemente rilevate, quelle bocche minuscole e come increspate, quegli occhi piccini e caratteristici, quegli orecchi
a lobo eccessivamente assottigliato, quelle mani a dita lunghe ed enormi… »; e
poi le preferenze coloristiche, di natura psicologica, che concorrono alla « crea20Facciata dell’ospedaletto
La decorazione in cotto
dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso.
è dell’ultimo trentennio del secolo XV.
21zione dì un ambiente tragico, di un mondo triste, severo e violentemente emotivo » ;
il prevalere del tema religioso, « più aderente alla psiche piemontese e savoiarda
d’allora», su quello profano, cortigiano e cavalleresco; e infine un tono volentieri
popolare anche negli esempi di maggior levatura artistica, una rusticità — come
ha osservato acutamente la Brizio (op. cit.) per gli affreschi di S. Antonio di
Ranverso — « che non è rozzezza, anzi non esclude la finezza e l’eleganza, ma è
una varietà meno “aulica” del gotico fiorito ».
Identificato il clima in cui si svolse questa civiltà pittorica con l’ambiente
storico sabaudo all’apogeo del suo splendore nell’età di Amedeo V ili — sessanta
anni di regno, 1391-1451, ora dichiarato ed ora dissimulato, compreso il pontificato
col nome di Felice V — e nel periodo immediatamente precedente; ribadito il
concetto che per almeno un trentennio « la pittura pedemontana fu perfettamente
aggiornata con le contemporanee scuole europee, ebbe un contenuto suo proprio
che la differenzia dalle altre, fu arte di primo piano perché realizzò un perfetto
equilibrio tra elementi illustrativi e decorativi»; potevano maturare più ampi e
rigorosi studi come quelli citati della Brizio, del Cavallari Murat, del Viale; come
quello recentissimo di Roberto Carità (La pittura nel Ducato di Amedeo Vili,
Revisione di Giacomo Jaquerio, « Bollettino d’arte », Roma, 1956), qua e là forse
discutibile per certe attribuzioni; mentre s’infittivano le ricerche parziali (per
esempio: Noemi Gabrielli, Un dipinto su tavola di Giacomo Jaquerio, « Bollettino
Storico-Bibliografico Subalpino», Torino, 1941), e addirittura alcuni giudizi,
prima eccessivamente restrittivi, si capovolgevano in esaltazioni, tipo quella, già
accennata, del Jaquerio ad opera di W. R. Valentiner (Le maître du Triomphe
de la Mort à Paierme, «Gazette des Beaux-Arts», Paris, 1937).
Per tornare al « più prezioso mazzo dei quattrocenteschi fiori pittorici del
forte e guerriero Piemonte » composto da artisti dell’età di Amedeo V ili ed
amorosamente vagheggiato dal Cavallari Murat cogliendo rose in un giardino
le cui aiuole son tutte circoscritte negli scrupolosi elenchi della Brizio (op. cit.)
— un mazzo che riunisce, fra l’altro, gli affreschi di S. Giovanni ai Campi di
Piobesi, di S. Antonio di Ranverso, di S. Pietro di Pianezza, della cappella delle
Missioni a Villafranca Piemonte, della chiesa di Santa Maria e del castello della
Manta, di Fénis — le pitture del presbiterio e della sagrestia dell’abbazia di
Ranverso, e della sala baronale della Manta, per qualità artistica, tengono il
primo posto. E son quelle che qui vengono illustrate.
22Le pareti affrescate con l’Andata al Calvario, l’Orazione nell’orto, l’Annunciazione, la volta con I quattro Evangelisti nella sagrestia dell’abbazia di S. Antonio
di Ranverso o d’inverso, fondata con l’annesso ospedale «per i leprosi» e i malati
di « fuoco di S. Antonio » (erpete zoster) da Umberto III di Savoia sul finir del
secolo XII ed affidata ai monaci antoniani di Vienne, erano note — al pari d’altri
L’avanzo del chiostro, costruito nell’ultimo trentennio
del secolo XV, dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso.
affreschi, benché velati dallo scialbo, che dal tardo Duecento fino al principio del
Cinquecento (v. elenchi della Brizio, op. cit.) eran stati eseguiti nella chiesa —
anche quando dell’antica pittura piemontese pochi s’occupavano. Nel 1876 il
Gamba (op. cit.) esprimeva l’opinione che l’Andata al Calvario fosse stata dipinta
al « principio del 1500 » da « artefice che ha veduto, e forse studiato Gaudenzio »
(egli pensava alle scene della Vita di Gesù in S. Maria delle Grazie a Varallo) e
rifiutava « come poco seria l’opinione di taluni, i quali vi scorgono il fare Giottesco ». Sottolineandone la « non lieve importanza » malgrado « lo stato di degra23dazione», la dichiarava «degna di conservazione»; e notata la disparità, a paret
suo, esistente fra « alcuni personaggi nel cui volto è ammirabilmente dipinta
l’espressione del dolore e della compassione », ed altri « male espressi, male disegnati,
specialmente nelle estremità, ed indegni di stare a paro coi primi descritti », affermava che la pittura a fresco da un « vandalo » era stata « in molte parti rifatta
con colore a tempera ».
L’anno dopo C. Edoardo Mella, trattando nuovamente Dell’abbazia e chiesa
di S. Antonio di Ranverso (« Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per
la provincia di Torino», 1877), segnalava «come interessanti le pitture della
sagrestia che arieggiano il fare della scuola tedesca ». Ancor nel 1911 Pietro Toesca
(Torino, Bergamo, 1911) accennando a questi affreschi doveva accontentarsi di
assegnarli ad uno di quegli anonimi artisti i quali « tutti dimostrano come nel
corso del Quattrocento fosse profonda e prevalente l’influenza della pittura oltramontana nel Piemonte, anche in opere che si posson credere eseguite da artisti
piemontesi ». Fu infatti soltanto nel 1914 che Cesare Bertea, nella relazione sui
lavori di restauro compiuti a Ranverso dall’Ordine Mauriziano (Gli affreschi di
Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, «Atti
della Società Piemontese d’Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino »,
1914), potè annunziare la scoperta della scritta: (pietà) fuit ista capella p(er)
manu(m) Iacobi Jaqueri de Taurino, sulla fascia bianca della cornice a chiaroscuro che corre orizzontalmente al di sopra della testa dei due profeti dipinti
sotto una Madonna in trono, resa visibile con gli altri affreschi del presbiterio
quando ne furono asportate le tinte moderne e tolti gli stalli settecenteschi
addossati alla parete.
L’esistenza di un pittore torinese Jaquerio, anzi di un’intera dinastia pittorica
di questo nome, già era stata accertata, oltre che dal Caffaro, da Ferdinando
Rondolino (La pittura torinese nel Medioevo, « Atti della Società Piemontese di
Archeologia e Belle Arti », 1901), con documenti testimonianti che un pittore Pietro
Jaquerio aveva lasciato ricordo di sè in Torino dal 1340 al 1366; che suo figlio
Giovanni dipingeva a Torino nel 1369, rifaceva un guasto S. Giovanni nel 1375
per un tal Antonio Descalcino, decorava la porta Marmorea di Torino nel 1382,
forniva immagini sacre alla Credenza nel 1385, ornava nel 1403 le finestre delle
due ampie sale fatte costruire allora nel castello di Porta Fibellona (Palazzo
Madama attuale) da Lodovico d’Acaia; che Giacomo Jaquerio, probabilmente
24GIACOMO JAQUERIO: Particolare del Sonno degli Apostoli della Orazione nell’Orto (affresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso).
La firma di Giacomo Jaquerio scoperta nel 1914 nel presbiterio della chiesa dell’abbazia di
S. Antonio di Ranverso: (pietà) fuit ista capello p(er) manu(m) Jacobi Jaqueri de Taurino.
25figlio di Giovanni e nel 1404 abitante col fratello Matteo in case a S. Agnese e
a S. Simeone, passato al servizio di Lodovico d’Acaia, era pagato nel 1418 per
pitture eseguite nella camera del principe e nella contigua cappelletta del castello
di Pinerolo, e nuovamente rimunerato nel 1426 per lavori pittorici ordinati da
Amedeo V ili nella cappella del castello di Thonon. Lo stesso Giacomo Jaquerio
era poi dato presente a Torino nel 1426, nel 1429, nel 1440 col ragguardevole
incarico di clavarius comunale; ed a Torino moriva il 27 aprile 1453. I documenti
menzionavano ancora altri pittori Jaquerio attivi dal 1427 al 1485: Giovanni,
figlio di Matteo; Giorgio e Giacomo, figli del secondo Giovanni. Una famiglia
d’artisti torinesi, dunque, operosa per un secolo. Queste notizie vanno completate
con quelle fornite successivamente da Vittorio Viale, circa una pittura eseguita
nel 1401 da Giacomo Jaquerio nel convento dei Domenicani a Ginevra (Notizia
di una pittura di Jacobo Jaquerio a Ginevra, « Bollettino della Società Piemontese
d’Archeologia e Belle Arti », Torino, 1947), e da Roberto Carità (op. cit.) su
altri lavori che sarebbero stati condotti da Giacomo a Torino (il Carità sostiene
che il pittore del castello di Porta Fibellona fu Giacomo e non Giovanni), a
Ripaglia, a Thonon, a Pinerolo.
La scoperta della scritta nel presbiterio della chiesa di S. Antonio di Ranverso
veniva perciò a definire la personalità di un artista che prima non era stato che
un nome. Gli affreschi del presbiterio, scriveva allora il Bertea (op. cit.), « hanno
gli stessi caratteri stilistici e di tecnica di quelli della sagrestia»; e concludeva:
« É quindi probabile che il Giacomo Jaquerio senior abbia avuto l’incarico di
eseguire gli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso poco dopo il suo ritorno a
Torino da Thonon nel 1426, ed è probabile che egli stesso abbia dipinto le
composizioni e le figure più belle e meglio disegnate, mentre le altre siano state
fatte, sotto la sua direzione, dai nipoti Giovanni e Giacomo o da qualche altro
suo allievo ». A parte la supposizione degli aiuti (il Giacomo junior, a quanto
sembra, sarebbe stato il pronipote del senior, troppo giovane, quindi, per essergli
collaboratore), la tesi del Bertea fu accettata; e la Brizio, vagliando nel 1942 (op. cit.)
tutti gli studi jaqueriani successivi al 1914, dei dipinti della chiesa di Ranverso
assegnava a Giacomo: nel presbiterio, la Madonna in trono, i Profeti, i Santi e
le Sante della parete sinistra, le Storie della vita di S. Antonio, il Cristo coi
simboli della Passione, le Figure di contadini con animali della parete destra;
nella sagrestia, l’Andata al Calvario, l’Orazione nell’orto, l’Annunciazione, alle
26Caprette e pecore affrescate da Giacomo Jaquerio nel presbiterio della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di
Ranverso insieme con altre raffigurazioni di contadini ed animali.
27pareti, e sulla volta i Quattro Evangelisti; nell’ultima campata della navata destra,
S. Barbara e Due Santi negli sguanci della bifora e in una rientranza. Ultimamente
il Carità (op. cit.) tornava su una precedente attribuzione a Giacomo delle Storie
di S. Biagio in capo alla navata destra (attribuzione detta dalla Brizio « senza
fondamento »), e dava al Jaquerio anche queste pitture; non senza osservare che
l’Andata al Calvario con la sua violenza, il suo movimento, le sue durezze, i suoi
spunti espressionistici drammatico-grotteschi, rappresenta « un momento un poco
eccentrico nello svolgimento dell’attività dell’artista », il quale altrove si rivela
come un « temperamento sognante e malinconico, incline a stati contemplativi,
espressi — in senso pittorico — con figure stanche e dolenti, di una eleganza
raffinata di sapore romantico ». Una osservazione che — considerando anche le
pitture della chiesa di S. Pietro di Pianezza, le quali sono ormai concordemente, per
lo stile, date al Jaquerio (Eugenio Olivero, L ’antica pieve di S. Pietro presso Pianezza, Torino, 1928; Cavallari Murat, Brizio, Carità, op. cit.) — non appare priva
di valore, e potrebbe forse indicare, sia pure in modo molto dubitativo, un cammino dell’interessante pittore torinese da Ranver so e da Pianezza fino al castello
della Manta, per i Nove Prodi e le Nove Eroine della sala baronale. E’ un’ipotesi
assai azzardata, la quale, ove trovasse credito, darebbe finalmente una paternità a
quei suggestivi affreschi, e che è sostenuta (per comunicazione orale) da Noemi
Gabrielli. Del resto, anche un osservatore acuto come il Toesca (Antichi affreschi piemontesi, op. cit.), benché asserendo che le decorazioni della Manta spettano
« ad altro pittore », non poteva fare a meno di notare che « nella tumultuosa
scena dell’Andata al Calvario si esplica ampiamente la predilezione di ritrarre atteggiamenti e figure grottesche che si scorge anche nella Fontana di Giovinezza
dipinta nel castello di Manta: tendenza più propria assai dell’arte oltramontana
che della nostra, ma rinnovantesi in altri periodi dell’arte nelle regioni alpine
dell’Italia settentrionale. Nei tipi delle figure, nella tecnica del colore anche più
appaiono strette somiglianze fra gli affreschi di Manta e quelli di Ranverso: tinte
piatte sul terreno e nello sfondo, vivacissime nelle vesti, ora scialbe ora ardenti e
rossastre nei visi ». Malgrado quell’« altro pittore », pare che il Toesca si trattenga
con rammarico dal dichiarare che i due affreschi sono addirittura della stessa mano.
E se mai, non potrebbe essersi rinnovato alla Manta il « momento eccentrico » del
Calvario di Ranverso?
Comunque, proprio a Ranverso si configura un’individualità pittorica possente,
28GIACOMO JAQUERIO
A n d a t a a l C a l v a r i o
Affresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso.
varia e vivace, ora impetuosa, energica, rude, passionale, ora meditativa e raccolta
in una aristocratica difesa della propria intimità; una individualità degna, per
incisività di stile e spontaneità di sentimento, per padronanza di mezzi espressivi
e libertà di fantasia, di andare accanto alle maggiori della pittura coeva dell’Italia
del Nord e del Centro. Fare di Giacomo Jaquerio il multiforme maestro che ha
voluto in lui disegnare il Valentiner (op. cit.), l’autore del Trionfo della Morte
di Palazzo Sclafani a Palermo e della Leggenda di S. Giorgio divisa fra Parigi e
Chicago, il coltissimo artista che viaggia dalla Borgogna alla Catalogna esercitandovi la sua influenza è senza dubbio eccessivo, anche perchè le analogie viste
dal Valentiner stentano a reggere una serrata analisi stilistica, come hanno
dimostrato sia Carlo Lodovico Ragghiami (« La Critica d’Arte », Firenze, aprile
1938, sia la Brizio, op. cit.). Ma del Valentiner è accettabile l’asserzione che il
Jaquerio è « un maitre de premier pian », di « singulière vigueur », il cui talento
è « tout autre que celui d’un simple imitateur », sì che meriterebbe gli fosse assegnata nella storia della pittura del Quattrocento « une place plus éminente que
celle dont on l’a jugé digne jusqu’à present ». E’ un giudizio che coincide con
quello del Viale (op. cit.), quando parla di « una vigoria plastica, una larghezza di
pennellata, un senso del colore, una padronanza del chiaroscuro, una profondità
di espressione interiore, un equilibrato concorrere insomma di nuovi elementi stilistici e psicologici, da far pensare veramente che il Jaquerio sia non solo il più
dotato e squisito pittore del neo gotico locale, ma un maestro di forte e originale
personalità, vigoroso preannunziatore dell’arte nuova ».
A Ranverso la dolcezza, il conforto, la pensosità del racconto religioso, il drammatico ammonimento della tragedia cristiana; alla Manta la favola « cortese », gli
ozi eleganti, le fantasie leggiadre di una società raffinata, che tuttavia non rifiuta
il burlesco, il gesto audace, la scoperta allusione al piacere dei sensi. E’ l’altro volto
di una pittura edonistica che accorcia le distanze fra il sacro e il profano, che
trasforma i santi in cavalieri e fa delle martiri dei paradigmi di mondanità; duplice
aspetto di una condizione estetica e morale che meravigliosamente, sul piano dell’arte, si puntualizza nella Visione di S. Eustachio e nella Madonna con S. Antonio
abate e S. Giorgio del Pisanello.

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